Il cammino dell’uomo. Il libro che ha ispirato Hermann Hesse
Testo di: Rodolfo Signifredi
“Uomo, dove sei?” È la domanda posta all’inizio di un delizioso libretto che aveva tanto affascinato, oltre mezzo secolo fa, Hermann Hesse. “Uomo, dove sei?” è la stessa domanda che Dio rivolge ad Adamo quando si nasconde al suo sguardo nel giardino dell’Eden. E questo Adamo siamo noi, perché la domanda dei primordi è più che mai valida per tutti e in tutti i tempi. “Il cammino dell’uomo” è una meditazione in sessantacinque paginette, tratte da una conferenza che Martin Buber ha tenuto nell’aprile del 1947. E contiene un messaggio sull’uomo, sull’educazione dell’uomo secondo l’insegnamento chassidico. “Non parlo di null’altro che dell’uomo quale veramente è, di voi e di me, della nostra vita e del nostro mondo” dice Buber e con cognizione di causa, sulla base della sua conoscenza biblica e dei suoi buoni rapporti con arabi ed ebrei in terra di Palestina. Proprio per questo quanto mai attuale.
L’ha pubblicato, una decina di anni fa, la Comunità di Bose per inserirlo nella sua collana più preziosa: Qiqajon. E la prefazione è dello stesso Enzo Bianchi, priore di questa Comunità monastica divenuta famosa per il suo ecumenismo. Il suo lavoro editoriale è frutto della collaborazione di cristiani di diverse confessioni, ma con profondi interessi per le radici ebraiche della fede. Molto impegnati a dissipare ogni ambiguità in merito al dialogo interreligioso e all’incalzante supermercato delle religioni.
Ecco cosa dice Enzo Bianchi di questa meditazione sull’uomo che ha sicuramente influenzato la narrativa e la saggistica spirituale di Hermann Hesse. “È un vero itinerario per la crescita, la maturità, l’autenticità dell’uomo in sei brevi capitoli che certamente sono ricchi di racconti chassidici, ma che raggiungono la sapienza presente nella grande tradizione ebraica”.
UN CAMMINO IN SEI TAPPE
1 – IL RITORNO A SE STESSI
“Rabbi Shneur Zalman, il Rav della Russia, era stato calunniato presso le autorità da un capo degli avversari del chassidismo, (il grande movimento mistico-religioso nato in seno all’ebraismo dell’Europa orientale nel 1700) che condannavano la sua dottrina e la sua condotta, ed era stato incarcerato a Pietroburgo. Un giorno, mentre attendeva di comparire davanti al tribunale, il comandante delle guardie entrò nella sua cella. Di fronte al volto fiero e immobile del Rav che, assorto, non lo aveva notato subito, il comandante si fece pensieroso e intuì la qualità umana del prigioniero. Si mise a conversare con lui e non esitò ad affrontare le questioni più varie che si era sempre posto leggendo la Scrittura. Alla fine chiese: “Come bisogna interpretare che Dio Onnisciente dica ad Adamo: “Dove sei?”.
“Credete voi –rispose il Rav – che la Scrittura è eterna e che abbraccia tutti i tempi, tutte le generazioni e tutti gli individui? “Sì, lo credo”, disse. “Ebbene –riprese il Rav – in ogni tempo Dio interpella ogni uomo: “Dove sei nel tuo mondo? Dei giorni e degli anni a te assegnati ne sono già trascorsi molti: nel frattempo tu fin dove sei arrivato nel tuo mondo?”. Dio dice per esempio: “Ecco, sono già quarantasei anni che sei in vita. Dove ti trovi?” All’udire il numero esatto dei suoi anni, il comandante si controllò a stento, posò la mano sulla spalla del Rav ed esclamò: “Bravo!”; ma il cuore gli tremava.
Qual è il senso di questa storia? Il comandante cerca di smascherare una contraddizione nelle credenze ebraiche. Se il Dio in cui credono è un Essere onnisciente, perché chiede ad Adamo “Dove sei?”. Significa che non lo sa. Esaminando il racconto più da vicino, il Rabbi mira a dirgli: “Adamo sei tu. È a te che Dio si rivolge chiedendoti dove sei. Ogni volta che Dio pone una domanda di questo genere non è perché l’uomo gli faccia conoscere qualcosa che lui ancora ignora: vuole invece provocare nell’uomo la reazione di chi è colpito al cuore. Adamo si nasconde per non dover rendere conto, per sfuggire alla responsabilità della propria vita.
Così si nasconde ogni uomo, perché ogni uomo è Adamo e nella situazione di Adamo, che trasforma l’esistenza in un congegno di nascondimento. Nascondendosi così si precipita sempre più profondamente nella falsità. L’uomo non può sfuggire all’occhio di Dio, ma cercando di farlo, si nasconde a se stesso. Dio, con la sua domanda, vuole turbarlo e far nascere in lui il desiderio di venirne fuori. E quando questa domanda giungerà all’orecchio, il “cuore tremerà” come al comandante del racconto. Ma fino a quando non si presterà ascolto, la vita dell’uomo non può diventare cammino.
Per quanto ampio sia il successo e il godimento di un uomo, per quanto vasto sia il suo potere e colossale la sua opera, la sua vita resta priva di un cammino finché egli non affronta la voce. Qui inizia il cammino dell’uomo. Il ritorno decisivo a se stessi è l’inizio del cammino, il sempre nuovo inizio del cammino umano. Ma il ritorno a se stessi è decisivo solo se conduce al cammino, perché esiste anche un ritorno sterile, che porta al tormento; alla disperazione e a ulteriori trappole. Esiste un ritorno perverso a se stessi in cui non si vede vie d’uscita.
2 – IL CAMMINO PARTICOLARE
Rabbi Bär di Radoschitz supplicò un giorno il suo maestro, il Veggente di Lublino: “Indicatemi un cammino universale al servizio di Dio”. E lo zaddik rispose: “Non si tratta di dire all’uomo quale cammino deve percorrere: perché c’è una via in cui si segue Dio con lo studio e un’altra con la preghiera, una con il digiuno e un’altra mangiando. È compito di ogni uomo conoscere bene verso quale cammino lo attrae il proprio cuore e poi scegliere quello con tutte le forze”.
Questo ci dice innanzitutto quale deve essere il nostro rapporto con il servizio autentico che è stato compiuto prima di noi: dobbiamo venerarlo, trarne insegnamento, ma non imitarlo pedissequamente. Quanto di grande e di santo è stato compiuto ha per noi valore di esempio perché ci mostra con evidenza cosa sono grandezza e santità, ma non è un modello da ricalcare. Per quanto infimo possa essere – se paragonato alle opere dei patriarchi – ciò che noi siamo in grado di realizzare, il suo valore risiede comunque nel fatto che siamo noi a realizzarlo nel modo a noi proprio e con le nostre forze.
I padri hanno istituito un nuovo servizio, ciascuno secondo la propria natura: l’uno quello dell’amore, l’altro quello della forza, il terzo quello dello splendore. E noi, secondo la nostra propria modalità, dobbiamo istituire del nuovo. Non fare il già fatto, bensì quello ancora da fare. Con ogni uomo viene al mondo qualcosa di nuovo che non è mai esistito, di primo e di unico. Se infatti fosse già esistito al mondo un uomo identico a lui, egli non avrebbe motivo di essere al mondo.
Quand’era vecchio e cieco, il saggio Rabbi Bunam disse un giorno: “Non vorrei barattare il mio posto con quello del padre Abramo. Che ne verrebbe a Dio se il patriarca Abramo diventasse come il cieco Bunam e il cieco Bunam come Abramo?” La stessa idea è stata espressa con ancora maggior acutezza da Rabbi Sussja che, in punto di morte, esclamò: “Nel mondo futuro non mi si chiederà: “perché non sei stato Mosé?”; mi si chiederà invece: “Perché non sei stato Sussja?”
L’insegnamento è che gli uomini sono ineguali per natura e pertanto non bisogna cercare di renderli uguali. Tutti gli uomini hanno accesso a Dio, ma ciascuno in modo diverso. La diversità degli uomini è la grande risorsa del genere umano. L’universalità di Dio consiste nella molteplicità infinita dei cammini che conducono a lui. Dio non dice: “Questo cammino conduce fino a me, mentre quell’altro no”; dice invece: “Tutto quello che fai può essere un cammino verso di me, a condizione che tu lo faccia in modo tale che ti conduca fino a me”.
Ma in che cosa consiste ciò che deve fare quell’uomo può rivelarsi solo a partire da se stesso. Unicamente dalla conoscenza del proprio essere, della propria qualità e della propria tendenza essenziale. Ma ciò che è prezioso dentro di sé, l’uomo può scoprirlo solo se coglie veramente il proprio sentimento piò profondo, il proprio desiderio fondamentale. E’ indubbio che l’uomo conosca spesso il proprio sentimento più profondo solo nella forma della passione o della cattiva inclinazione. Il desiderio più ardente si focalizza su ciò che promette di colmarlo.
L’essenziale è che l’uomo diriga la forza di questo stesso sentimento dall’occasionale al necessario, dal relativo all’assoluto. Così troverà il proprio cammino. Ma la nostra missione in questo mondo non può essere in alcun caso quella di voltare le spalle alle cose e agli esseri che incontriamo e che attirano il nostro cuore. Al contrario, attraverso la santificazione del legame che ci unisce a loro attraverso ciò che si manifesta come bellezza, benessere, godimento. La gioia che si prova a contatto con il mondo conduce, se la santifichiamo con tutto il nostro essere, alla gioia in Dio.
Anche se la presa di distanza dalla natura e l’astinenza nei confronti della vita possono a volte costituire l’inizio del cammino necessario, così come lo stare in disparte in certi momenti cruciali dell’esistenza. Ma non possono mai rappresentare l’intero cammino. Ci sono uomini che devono cominciare con il digiuno per conseguire la liberazione dall’asservimento al mondo attraverso l’ascesi. Ma l’ascesi non deve mai pretendere di dominare la vita dell’uomo. L’uomo deve allontanarsi dalla natura solo per ritornarvi rinnovato e per trovare, nel contatto santificato con essa, il cammino verso Dio.
Dalla prima tappa essenziale occorre prendere coscienza che davanti all’uomo si apre una via particolare, una propria via. Cioè bisogna intraprendere la nostra e non imitare quella degli altri. Senza percorrere quella già percorsa. Evitando ogni sterile ripetizione. Ma senza pretendere che la propria via escluda ad altri la loro via. Non c’è una via unica, occorre invece scegliere la propria. E scegliere significa anche rinunciare.
Nel mondo futuro non mi si chiederà “Perché non sei stato Mosé?”, bensì “Perché non sei stato te stesso?”. Ognuno ha una sua via e, sceltala, deve perseguirla con risolutezza. La decisione deve essere forte e risolutiva, senza dilettantismi. Qualunque sia la via scelta, se essa è la propria via e la si persegue, alla fine si conosce la gioia, la bellezza, la pienezza. E, quindi, il percorso può aprirsi a Dio. Come Buber ci fa capire attraverso questo racconto.
3 – LA RISOLUTEZZA
Un discepolo del Veggente di Lublino decise un giorno di digiunare da un sabato all’altro. Ma il pomeriggio del venerdì fu assalito da una sete così atroce che credette di morire. Individuata una fontana, vi si avvicinò per bere. Ma subito si ricredette, pensando che per un’oretta che doveva ancora sopportare avrebbe distrutto l’intera fatica di quella settimana. Non bevve e si allontanò dalla fontana. Se ne andò fiero di aver saputo trionfare su quella difficile prova; ma, resosene conto, disse a se stesso: “È meglio che vada e beva, piuttosto che acconsentire a che il mio cuore soccomba all’orgoglio.” Tornò indietro, si riavvicinò alla fontana e stava già per chinarsi ad attingere acqua, quando si accorse che la sete era scomparsa. Alla sera, per l’apertura del sabato, arrivò dal maestro. “Un rammendo!” esclamò lo zaddik appena lo vide sulla soglia.
Quando da giovane ascoltai per la prima volta questa storia, fui addolorato per la durezza con la quale il maestro aveva trattato quel discepolo zelante. Questi si impegna al massimo per realizzare una difficile ascesi, si sente tentato di romperla e supera la tentazione, e con tutto ciò non miete altro che un giudizio sfavorevole dal suo maestro. Com’è possibile essere rimproverati per una simile lotta interiore? Solo molto più tardi ho capito che qui non si tratta assolutamente di esigere qualcosa dall’uomo.
Il discepolo non aveva forse sentito dalla bocca dello stesso maestro, che il digiuno può servire ad elevare solo nella fase iniziale dello sviluppo e nei successivi momenti critici? Con le sue parole il maestro mette in guardia su una cosa che inevitabilmente gli impedisce di realizzare il suo progetto. Oggetto di biasimo è il fatto di avanzare e poi di indietreggiare; è l’andirivieni, il procedere a zigzag. Il rammendo. L’opposto del rammendo è il lavoro fatto di getto. Ma come realizzare un lavoro in un sol getto? In nessun altro modo che con un’anima unificata.
C’è chi possiede questa unità “per natura” o “per grazia” e chi invece possiede un’anima molteplice, complicata, contraddittoria e gli inciampi nell’agire dipendono dagli inciampi dell’anima. Cosa può fare un uomo di questo genere se non sforzarsi di superare le tentazioni, riprendersi, raccogliere la propria anima sfilacciata, concentrarla e indirizzarla sempre nuovamente verso la meta. E la critica del Veggente è l’insegnamento secondo il quale l’uomo è in grado di unificare la propria anima anche se è contraddittoria perché il nucleo più intimo di quest’anima – la forza divina che giace nelle sue profondità – è in grado di agire su di essa e trasformarla.
Questa unificazione deve prodursi prima che l’uomo intraprenda un’opera eccezionale. Solo con un’anima unificata sarà in grado di compierla in modo che il risultato sia non un rammendo ma un lavoro d’un sol getto. Ma non bisogna nemmeno immaginare che l’ascesi possa provocare l’unificazione; essa può purificare, può anche concentrare, ma non può far sì che il risultato si mantenga fino al conseguimento della meta. Non si può proteggere l’anima dalla propria contraddizione. Ma nessuna unificazione dell’anima è definitiva. Però ogni opera che compio con un’anima unificata conduce ad una unità più costante di quella precedente.
Fino a che ci si può affidare alla propria anima e superare la contraddizione come per gioco. Anche allora è opportuno restare vigilanti, ma è una vigilanza serena. E quando si dice “anima” si deve intendere “l’uomo intero”, corpo e spirito fusi insieme. L’anima è realmente unificata a condizione che tutte le forze, tutte le membra del corpo lo siano anch’esse. Bisogna cioè coinvolgere tutto l’essere corporeo dell’uomo, nulla di lui deve restare fuori. Quando l’uomo diventa una simile unità di corpo e di spirito insieme, allora la sua opera è opera d’un sol getto. Nel corso del cammino, grazie alla risolutezza e alla fedeltà, per l’uomo è possibile infatti una unificazione di tutto il suo essere, corpo e spirito. L’uomo è un essere diviso, contraddittorio, complicato, ma può conoscere il miracolo dell’unificazione mettendo la propria volontà in sinergia con la forza divina che giace nelle sue profondità.
Solo l’uomo unificato può compiere l’opera intera e non operare “rammendi”. Tutte le forze devono essere implicate nell’azione, tutte le componenti dell’essere umano, tutte le sue membra, altrimenti l’uomo resta schizofrenico. É il comandamento tante volte rinnovato dai rabbini: “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutto il tuo essere, con tutte le tue forze”.
4 – COMINCIARE DA SE STESSI
Alcune persone eminenti di Israele erano un giorno ospiti di Rabbi Isacco di Worki. La conversazione cadde sull’importanza di un servitore onesto per la gestione di una casa: “Tutto volge al bene – dicevano – se si ha un buon servitore, come dimostra il caso di Giuseppe, nelle cui mani tutto prosperava”. Ma Rabbi Isacco non condivideva l’opinione generale. “Ero anch’io dello stesso avviso – disse – finché il mio maestro non mi dimostrò che in realtà tutto dipende dal padrone di casa. Da giovane, infatti, mia moglie era per me fonte di tribolazione, e pur essendo disposto a sopportare per quel che riguardava me stesso, mi facevano pena i servitori. Andai allora a consultare il mio maestro, Rabbi David di Lelow, e gli chiesi se dovevo oppormi o meno a mia moglie. “Perché ti rivolgi a me? – rispose – Rivolgiti a te stesso”.
Dovetti riflettere a lungo su queste parole prima di capirle, e le capii solo ricordandomi anche delle parole di Baal-Shem: “Ci sono il pensiero, la parola e l’azione. Il pensiero corrisponde alla moglie, le parole ai figli, l’azione ai servitori. Tutto si volgerà al bene per chi saprà mettere in ordine le tre cose nel proprio spirito”. Allora compresi cosa avesse voluto dire il mio maestro: che tutto dipendeva da me”.
Questo racconto tocca uno dei problemi più profondi e più seri della nostra vita: il problema della vera origine del conflitto tra gli uomini. Ci sono fattori oggettivi alle origini della disputa che può essere causata però anche da problemi inconsci di cui i motivi originari rappresentano i sintomi. Le problematiche della vita esteriore dovute a quelle interne. Ma l’insegnamento chassidixo non esamina le difficoltà isolate dell’anima, ma l’uomo intero. Solo la comprensione della totalità porta ad una trasformazione reale, una guarigione dell’individuo e dei suoi rapporti con gli altri.
È importante considerare tutti i punti ma nella loro connessione. Inoltre l’uomo non è visto come oggetto ma deve rendersi conto che deve risolvere i problemi conflittuali nella sua anima, rivolgersi ai suoi simili da uomo trasformato e pacificato. Ma l’uomo cerca di eludere questa svolta decisiva e pretende che questa venga fatta anche dal suo avversario. Perché si considera come un individuo di fronte ad altri e non come una persona autentica la cui trasformazione contribuisce alla trasformazione del mondo. Cominciare da se stessi. In questo preciso istante non mi devo occupare di altro che non sia questo inizio. Il punto di Archimede per sollevare il mondo è la trasformazione di me stesso. Ogni altra presa di posizione mi distoglie da questo punto di forza e fa fallire l’impresa.
Così dice Rabbi Bunam: “Cerca la pace nel tuo luogo”. Non si può cercare la pace in altro luogo che in se stessi finché qui non la si è trovata. Dopo puoi cercarla nel mondo intero”. Il conflitto fra il principio del pensiero, della parola e dell’azione genera conflitti con i miei simili perché non dico quello che penso e non faccio quello che dico… Con la menzogna e la contraddizione alimentiamo le situazioni conflittuali che poi ci rendono schiavi. Per questo bisogna raggiungere il proprio sé profondo, non l’io egocentrico. E cambiare le proprie abitudini.
Per compiere l’opera grande è necessario iniziare da se stessi, percorrere il cammino del ritorno e quindi raggiungere gli altri uomini con la coscienza che un uomo autentico contribuisce alla trasformazione del mondo solo attraverso la propria trasformazione. Il conflitto con gli altri ha sempre la radice in se stessi e solo nel capovolgimento, nel ritorno, c’è il punto di svolta, la possibilità dell’autentica apertura della relazione io-tu.
5 – NON PREOCCUPARSI DI SÉ
Quando Rabbi Hajin di Zans ebbe unito in matrimonio suo figlio con la figlia di Rabbi Eleazaro, il giorno dopo le nozze si recò dal padre della sposa e gli disse: “O suocero, eccovi parenti, ormai siamo così intimi che vi posso dire ciò che mi tormenta il cuore. Vedete: ho barba e Capelli bianchi e non ho ancora fatto penitenza!”. “Ah, suocero – gli rispose Rabbi Eleazaro – voi pensate solo a voi stesso. Dimenticatevi di voi e pensate al mondo!”. Dimenticare se stesso. Questo sembrare contraddire quanto detto finora. Eppure, guardando bene, questo consiglio si integra perfettamente nell’insieme come uno stadio indispensabile. A che scopo, infatti, ritornare a se stesso, abbracciare il cammino personale, portare unità al proprio essere, e cominciare da se stesso?
La risposta è “Non per me”. Bisogna, infatti, cominciare da se stessi, ma non finire con se stessi. Prendersi come punto di partenza, ma non come meta. Conoscersi ma non preoccuparsi di sé. Le parole dello zaddik vogliono dire: “Invece di tormentarti incessantemente per le colpe commesse, devi applicare all’azione che sei chiamato a esercitare nel mondo la forza d’animo utilizzata per questa autoaccusa. Non di te stesso, ma del mondo ti devi preoccupare!”.
Dobbiamo infatti capire bene cosa è il ritorno nella concezione ebraica del cammino dell’uomo. L’uomo del ritorno viene innalzato al di sopra dello zaddik perfetto che non conosce l’abisso del peccato. Questo ritorno è molto più grande del pentimento e delle penitenze. Perché il ritorno è una virata di tutto l’essere verso l’adempimento del compito particolare che gli è affidato. Il ritorno significa qualcosa di molto più grande di pentimento e penitenze. Perché il pentimento è semplicemente l’impulso che fa scattare questa virata attiva, e l‘insistere a tormentarsi sul pentimento toglie alla virata il meglio delle energie.
Chi pensa sempre ad un male che ha commesso è sempre dentro alla sua cattiveria o volgarità e il suo spirito si fa rozzo, il cuore s’indurisce, l’afflizione si impadronisce di lui. Per quanto tu rimesti il fango, fango resta. Peccatore o non peccatore, cosa ci guadagna il cielo? Nel tempo che passo a rivangare posso invece infilare perle per la gioia del cielo! Perciò sta scritto: “Allontanati dal male e fa il bene. Hai agito male? Contrapponi al male l’azione buona!” Ma l’insegnamento va oltre. Chi si fustiga incessantemente si preoccupa solo della salvezza della propria anima. Invece ogni anima umana è un elemento al servizio della creazione di Dio. Creazione chiamata a diventare il regno di Dio. Così nessun’anima ha un fine interno a se stessa. Ciascuno deve giungere alla purificazione e alla pienezza, ma non a vantaggio di se stesso. Fissare come scopo la salvezza della propria anima è la forma più sublime di egocentrismo.
6 – LÀ DOVE CI SI TROVA
Ai giovani che venivano a lui per la prima volta, Rabbi Bunam era solito raccontare la storia di Rabbi Eisik, figlio di Rabbi Jekel di Cracovia. Dopo anni e anni di dura miseria, che però non avevano scosso la sua fiducia in Dio, questi ricevette in sogno l’ordine di andare a Praga per cercare un tesoro sotto il ponte che conduce al palazzo reale. Quando il sogno si ripeté per la terza volta; Eisik si mise in cammino e raggiunse a piedi Praga. Ma il ponte era sorvegliato giorno e notte dalle sentinelle ed egli non ebbe il coraggio di scavare nel luogo indicato. Tuttavia tornava al ponte tutte le mattine, girandovi attorno fino a sera. Alla fine il capitano delle guardie gli si avvicinò e gli chiese amichevolmente se avesse perso qualcosa o se aspettasse qualcuno. Eisek gli raccontò il sogno che lo aveva spinto fin lì dal suo lontano paese. Il capitano scoppiò a ridere: “E tu, poveraccio, per dar retta a un sogno sezi venuto fin qui a piedi? Stai fresco a fidarti dei sogni! Allora anch’io avrei dovuto mettermi in cammino per obbedire a un sogno e andare fino a Cracovia, in casa di un ebreo, un certo Eisik, figlio di Jekel, per cercare un tesoro sotto la stufa! Eisek, figlio di Jekel, ma scherzi? Mi vedo proprio a entrare e mettere a soqquadro tutte le case in una città in cui metà degli ebrei si chiamano Eisik e l’altra metà Jekel!”. E rise nuovamente. Eisek lo salutò, tornò a casa sua e dissotterrò il tesoro con il quale costruì la sinagoga intitolata “Scuola di Reb Eisek, figlio di Reb Jekel”.
C’è una cosa che si può trovare in un unico luogo al mondo, è un grande tesoro, lo si può chiamare il compimento dell’esistenza. E il luogo in cui si trova questo tesoro è il luogo in cui ci si trova. La maggior parte di noi giunge solo in rari momenti alla piena coscienza del fatto che non abbiamo assaporato il compimento dell’esistenza, ma che vi abbiamo vissuto ai margini. Eppure non cessiamo mai di avvertire la mancanza e di cercare da qualche parte, ma non là dove siamo. Ma il tesoro è proprio là dove siamo stati posti. In quello che avverto come il mio ambiente naturale, nella situazione che mi è toccata in sorte, in ciò che mi capita giorno dopo giorno, in quanto la vita quotidiana mi richiede.
Proprio lì è il mio compito essenziale, il compimento dell’esistenza messo alla mia portata. Sappiamo di un maestro del Talmud per il quale le vie del cielo erano chiare come quelle di Nehardea, sua città natale. Il chassidismo rovescia questa massima. È meglio, cioè, che le vie della città natale siano chiare come le vie del cielo. Perché è qui, nel luogo preciso in cui ci troviamo, che si tratta di far risplendere la luce della vita divina nascosta. Quand’anche la nostra potenza si estendesse fino alle estremità della terra, la nostra esistenza non raggiungerebbe il grado di compimento che può conferirle il rapporto di silenziosa dedizione a quanto ci vive accanto. Quand’anche penetrassimo nei segreti dei mondi superiori, la nostra partecipazione reale all’esistenza autentica sarebbe minore di quando, ne corso della nostra vita quotidiana, svolgiamo con santa intenzione l’opera che ci aspetta.
È sotto la stufa di casa nostra che è sepolto il nostro tesoro. Nessun incontro che facciamo è privo di un significato segreto. Gli uomini con i quali viviamo o incrociamo, gli animali che ci aiutano, il terreno che coltiviamo, gli attrezzi, tutto racchiude una essenza spirituale segreta che ha bisogno di noi per raggiungere la sua forma perfetta, il suo compimento. Se non teniamo conto di questa essenza spirituale, se trascuriamo di stabilire un rapporto autentico con gli esseri e le cose e pensiamo solo agli scopi che ci prefiggiamo, ci lasciamo sfuggire l’esistenza autentica.
Parecchie religioni negano la qualità di vita autentica. Per le une è solo un’illusione, per le altre è solo un’anticamera del mondo autentico. Nell’ebraismo, e nello chassidismo in particolare, quello che fa un uomo nella santità, qui e ora, non è meno importante della vita del mondo futuro. I due mondi sono solo apparentemente distinti e separati, ma devono diventare uno solo in tutta la realtà. E l’uomo è stato creato proprio per riunirli, mediante una vita santa con il mondo ed il luogo in cui si trova.
La grazia di Dio consiste proprio in questo suo volersi lasciare conquistare dall’uomo, in questo suo consegnarsi a lui. Dio vuole entrare nel mondo che è suo, ma vuole farlo attraverso l’uomo. Ecco l’opportunità “sovrumana” del genere umano. “Dio è ovunque, ma abita dove lo si lascia entrare” Ed entra ad abitare solo dove ci si trova realmente, dove si vive una vita autentica. Dalla domanda iniziale “Dove sei?” si giunge alla domanda finale “Dove abita Dio?” Con la rivelazione che Dio è la dove ci si trova. Dove l’uomo lo fa entrare mediante lo svolgimento fedele del suo compito e la relazione con quanto lo circonda.