Il direttore della felicità. Azioni nuove in azienda
Testo di: Giusy Grasso
Nella società odierna l’avanzata evoluzione della globalizzazione e le ristrutturazioni a catena, nonché le caotiche fusioni sempre più frequenti all’interno delle aziende, hanno sottoposto e sottopongono il lavoratore dipendente a insostenibili pressioni, palesate da profonda ansia e sfiducia nel proprio ruolo sociale.
L’imprenditoria ha iniziato un iter di riorganizzazione aziendale fondato sulla flessibilità del lavoro, trascurandone l’aspetto etico e sociale. L’avvalersi di nuove forme di lavoro – utilizzando le agenzie di lavoro interinale o lavoro in affitto – da parte delle aziende ha consentito loro di abbattere i costi del personale, precludendone la crescita in ambito produttivo e personale.
Spesso, agli esuberi più o meno artatamente riscontrati, le aziende pongono “rimedio” riducendo il personale, intervenendo poi, in special modo in periodi di sovraccarico di lavoro, con sostituzioni a tempo determinato. Ne consegue: per l’azienda, uno sgravo di ulteriori responsabilità e doveri, quali le assenze per malattia, le ferie e i tempi morti; per il lavoratore, un percorso in discesa con effetti che coinvolgono la sfera emotiva.
Mutato, purtroppo, anche il ruolo del sindacato, sicuramente meno combattivo e poco vicino ai lavoratori. Viene prospettata una visione falsata di maggiore opportunità di impiego per tutti, ma la realtà che apprendiamo, addentrandoci maggiormente nel quadro lavorativo odierno in Italia, è di instabilità di ruoli, crollo delle professioni, mancanza di crescita professionale e, quindi, di prospettive per il futuro. Ciò comporterà un disagio economico non indifferente, oltre alla quasi totale assenza di punti fermi. Tutto ciò determina un forte stress per il lavoratore.
Lo stress
Forse molti ignorano che la parola stress venne usata per la prima volta nel lontano 1676 dal signor Robert Hooke, un orologiaio inglese, a seguito di alcune ricerche sugli orologi. Egli apprese che essi potevano essere caricati fino a un limite massimo, che definì “stress”, determinato da elasticità e resistenza dei materiali. Una volta superata la “soglia limite”, sopraggiungeva la rottura del meccanismo.
Non sempre lo stress è negativo. In alcuni casi può contribuire a stimolare l’adattabilità di un individuo attraverso un costruttivo interagire con l’ambiente (eustress). Al contrario, se protratto nel tempo, genera scarso rendimento, disinteresse per il proprio lavoro, fuga dalle responsabilità ecc. (distress). Diverse sono quindi le modalità dell’individuo di reagire allo stress e in base a questo si verificheranno alcune problematiche.
Il burnout
Il termine burnout è inglese e significa “scoppiato”, “bruciato”. Introdotto dallo psicanalista Herbert J. Freudenberger nel 1975, indica uno stato di insoddisfazione lavorativa, in termini fisici e psicologici, conseguente al mancato raggiungimento di un obiettivo prefissato.
I modelli teorici più significativi in materia sono quelli individuati da Cary Chermiss nel 1980 e da Christina Maslach nel 1981. Si tratta, secondo Chermiss, di una reazione negativa allo stress, con conseguente apatia, frustrazione, mancanza di obiettivi e scarsa autostima, a cui segue un forte senso di colpa per il fallimentare espletamento dei propri incarichi. Da più approfondite analisi effettuate da Maslach apprendiamo che, sintomatologicamente, il burnout è caratterizzato da frequenti e persistenti emicranie; disturbi gastrointestinali; insonnia; eccessiva stanchezza; e da una serie di disturbi somatici, che vanno dalle frequenti influenze ai dolori lombari.
Dal punto di vista psicologico, invece, si potranno notare atteggiamenti quali volubilità, inclinazione all’isolamento e una propensione all’uso di sostanze stupefacenti. Nei casi più gravi, stati depressivi possono condurre alla malattia mentale e a pensieri suicidi. L’individuo è oltretutto assolutamente incapace di chiedere aiuto, e ciò evidenzia la mancanza di un riscontro sul piano sociale.
Il mobbing
Il termine mobbing ci giunge dagli studi dell’etologo Konrad Lorenz sul comportamento di una specie di uccelli, che, allo scopo di difendere i propri spazi, colpisce il più debole, espropriandolo di ogni cosa. Sottomettendolo e umiliandolo in svariati modi. Inserendolo in un contesto lavorativo, a innescare il mobbing basta veramente poco: sono sufficienti antipatie, invidia, il timore di essere in qualche modo scavalcati e non di meno le diversità e il razzismo.
La vittima viene umiliata e derisa per futili motivi, nonché depistata da informazioni inesatte sui suoi compiti all’interno dell’azienda. Non si tratta d’altro che di pura e semplice violenza psicologica, protratta nel tempo e indirizzata verso un individuo che si trova in uno stato di inferiorità strategica. Le conseguenze del mobbing portano addirittura al suicidio, all’incirca nel 20% dei casi.
Il Centro di Psicologia del Lavoro, Dipartimento dell’Istituto delle Psicoterapie, nel 1996 si interessò al mobbing attraverso l’analisi dello stress da lavoro in un primo momento e del burnout in seguito. Prendendo atto del fatto che esisteva effettivamente una sorta di sofferenza in ambito lavorativo, che si differenziava dal burnout per una più devastante intensità, atta a colpire il lavoratore più debole, creando gruppi coalizzati contro di lui, riducendolo all’emarginazione, spesso con gravi conseguenze a livello psicologico.
Harald Ege fu il primo ad affrontare in Italia lo studio del mobbing. Riassumendo, in un’organizzazione malata, quando lo stress supera la soglia del limite massimo sopportabile, genera frustrazione e apatia, crea burnout e questo, se preso sotto gamba e rielaborato con l’aggiunta di una certa crudeltà e coalizzazione dei più forti contro il lavoratore più debole, diventa mobbing.
Un nuovo lavoratore
È a questo punto che si fa strada l’ipotesi sempre più plausibile di una figura professionale nuova, inquadrata all’interno dell’azienda come direttore della felicità. Si tratta, per l’appunto, di un professionista, uno psicologo chiamato a verificare le problematiche di carattere organizzativo ed emotivo all’interno di un team di lavoro. Un responsabile del benessere è in grado di individuare un problema e prestare le proprie conoscenze e competenze al fine di ricompattare una certa armonia all’interno di un gruppo di lavoro, aiutando quindi il lavoratore più debole a individuare quelle che sono le reali difficoltà organizzative e di relazione che caratterizzano questa sua delicata fase lavorativa.
Questa nuova figura professionale contribuirà a potenziare l’autostima di coloro che si erano smarriti per sovraccarico di lavoro, malcontento a causa di un compenso inadeguato ecc. Il direttore della felicità, quale responsabile del benessere, lavorerà dunque sulle fragilità del singolo individuo e le carenti capacità organizzative e relazionali all’interno di un team di lavoro, intervenendo anche su eventuali comportamenti, da parte dei colleghi, atti a svilire il più debole in quanto in posizione di svantaggio rispetto agli altri.
Oggi il direttore della felicità sembra un’utopia, ma crediamo sia un progetto concreto e realizzabile per la salvaguardia dei valori umani, sociali e professionali. Si pone come strategia di intervento atta a semplificare il complesso ingranaggio della realtà lavorativa di un’azienda. Tutto questo rientra all’interno di un programma, quello della psicologia gestionale.
Gli insegnamenti della psicologia gestionale
Questo programma ha come obiettivo l’apprendimento, per l’appunto, di metodiche che, applicate alle più disparate esigenze, ci consentono di facilitare il lavoro d’équipe, sia a livello esecutivo che gestionale. Le capacità che si intendono sviluppare sono:
1. Competenze di problem solving: individuare i segnali della presenza di un problema, l’acquisizione degli elementi che lo contraddistinguono e, conseguentemente, l’acquisizione di tecniche d’intervento.
2. Conoscenze di dinamiche di gruppo: capacità di trasformare le divergenze in semplice cambiamento, capacità di ascoltare il punto di vista dell’altro, conoscenza sulle conseguenze determinate dallo stress a livello di relazione e rendimento produttivo.
3. Competenze gestionali orientate alla mission: capacità di circoscrivere gli obiettivi e indirizzare verso la condivisione.
4. Competenze di tipo supportivo: capacità di coniare un linguaggio condiviso da tutti, educazione all’ascolto, capacità di coinvolgere nella risoluzione di un problema.
In conclusione, si può affermare che l’intervento di un direttore della felicità sia una valida soluzione per una migliore qualità del lavoro e per un recupero di tempo prezioso, che, in una società come l’attuale, non può che essere apprezzabile.