Processo di autoriflessione come formazione
Testo di: Antonio Sbisà
Che cosa vuol dire seguire un percorso formativo? Il termine formazione sembra indicare il dare una forma. Dare una forma alle proprie capacità, al proprio corpo, al proprio spirito, alla propria unità, alla propria individualità, alla propria vita. Una forma dinamica, immagino, se no rischio di cristallizzare la vita, ammesso che si lasci fermare. Finora hanno sempre cercato gli altri di darmi una forma. La vita sociale è piena di forme in cui siamo invitati ad entrare: nel lavoro, nei rapporti affettivi, nel vivere la stessa unità del nostro essere.
Viviamo in un mondo in cui tutto cerca di darci una forma, ma in realtà sembra che siamo noi a costituire una qualche materia adatta ad alimentare ed a conservare le forme della società. Infatti, cercano tutti di darmi una forma, ma non è collegata con la mia individualità, non comporta lo sviluppo delle mie potenzialità. Cercano di impormi le forme sociali, al massimo cercando le più adatte, dove posso essere più facilmente adattato. La formazione rappresenta allora l’adattamento dell’individuo alla società.
Ma esiste un modo di pensare e di volere la formazione in un altro modo. La stessa cultura parlava in fondo della formazione come crescita dell’individuo. Sì, nel senso che l’individuo deve crescere e prepararsi, altrimenti in che modo potrà essere utile alla società, incarnare le forme del vivere sociale? In questo modo si tratta della crescita quasi fisiologica, la maturazione dell’età evolutiva, il tempo della scuola. Infatti, si pensa che l’educazione ad un certo punto si concluda, ed un individuo è pronto ad entrare nella società. Si comprende in ogni modo che a crescere debbano essere le capacità razionali, l’apprendimento culturale, le capacità professionali. Poi t’insegnano la morale generale e sociale. La preparazione affettiva, anche qui ci si prepara a qualcosa, non viene in realtà concepita.
Ad un certo punto sembrava che la formazione dovesse prendere il volo, in un senso più ampio e creativo. S’insisteva sullo sviluppo della soggettività, dell’individuo, come di un processo continuo di crescita, il cui fine riguardava la stessa crescita. Si comprendeva che si poteva crescere per tutta la vita, la formazione diventava un processo permanente. Si riconosceva anche che doveva svilupparsi la creatività individuale.
Ma per darmi una forma, per dare una forma alla mia individualità, devo conciliarla allora con un processo permanente di crescita, di movimento, di evoluzione. Per fare questo devo cercare di unificare la mia persona. Anche il corpo, la mente, lo spirito, vogliono la loro forma, devono sviluppare le loro specifiche forme, e contemporaneamente devono confluire nella forma generale della mia individualità. Sentiamo il movimento ritmico, ogni parte dell’essere si muove e si plasma come se fosse solo, e poi confluisce nella totalità armonica.
Ecco allora che sono combattuto fra due forze diverse: il tentativo di plasmarmi da parte dei condizionamenti e della società, e la possibilità che io faccia partire in me un mio processo di formazione personale, finalizzato alla mia unicità individuale, comprensiva della buona formazione dei diversi veicoli di cui sono composto.
Si tratta di processi globali che mi attraversano: i condizionamenti e le potenzialità, il mio essere concreto, figlio di un ambiente familiare e sociale, ed il mio essere profondo, nascosto, in attesa. Se voglio sviluppare il mio essere profondo, devo fermare i processi sociali. Non devo dare ascolto alla società. Ecco perché le indicazioni sulla conferma interiore.
Non posso certamente allontanarmi fisicamente dalla società, non penso di andare su montagne inesplorate a vivere da solo, nella natura. Sarebbe quasi un’idea, ma devo e voglio vivere e formarmi anche nella forza di resistenza verso queste immani forze sociali. Devo sviluppare la mia forza. Ci sono sicuramente spazi, modi e strategie, per accumulare le energie e seguire i percorsi che mi portano verso l’interiorità profonda.
Vediamo, che cosa ho a disposizione in termini di formazioni sociali? L’educazione scolastica rappresenta una sua forma di controllo sociale, sviluppa un minimo di apprendimento culturale, può sempre essermi utile.
Mi affaccio al territorio, e vedo tante formazioni quante sono le componenti di cui siamo fatti, siamo in piena scissione! Chi ti forma il corpo non sa nulla dello spirito, chi ti forma la mente ignora che esista altro, chi ti forma lo spirito sembra ti prepari comunque ad un decollo dal mondo. Le analisi e le psicoterapie sembrano volerti formare una seconda volta: se sei sfuggito al primo adattamento, e sei un po’ complesso, un po’ più esigente, ecco che amorose terapie possono rimetterti sui binari, anche se, forse, a condizioni più agevolate. Alcune forme di meditazioni vogliono sciogliere l’ego, ma rischiano di farlo prima che abbia svolto il suo ruolo, prepararmi efficacemente a sostenere il Sé. E quindi possono indebolirmi.
Vediamo meglio tutto questo.
L’ideologia pervadente il senso comune considera una vita normale possibile ed auspicabile, ed intende per vita normale la vita assoggettata alle istituzioni ed ai ruoli, che tutti conoscono. Si crede spontaneamente in una corrispondenza fra la vita sociale e le caratteristiche della natura umana presente in ognuno di noi. Sicuramente da alcuni decenni si sono intensificate le sensazioni dei limiti, ma questi sono considerati inevitabili o fatali: i disturbi fisici e psicologici di chi non riesce ad adattarsi trovano molti rimedi nella psicoterapia e nella medicina, mentre le reazioni dell’ambiente all’inquinamento trovano qualche debole risonanza in alcuni gruppi ed istituzioni. Sostanzialmente si crede che questo sia quasi l’unico mondo possibile. Di conseguenza i malesseri non hanno mai origine dalla vita sociale. Ecco quindi l’esigenza di curare l’individuo.
Noi stessi concepiamo la psicoterapia come un rimedio utile od indispensabile quando stiamo male, quando siamo tesi o depressi, quando abbiamo qualche difficoltà dominante. Certamente non ammettiamo in generale di poter stare male in un qualche modo che dipenda dalla nostra reazione intima al mondo. Abbiamo di fronte problemi oggettivi: trovare il lavoro, sopravvivere, essere accettati, vivere un amore, divertirsi. Si risolvono trovando all’esterno ciò che ancora ci manca. E’ naturale essere stanchi o depressi mentre ci si confronta con il mondo per ottenere anche solo quel funzionamento naturale consistente nel potere lavorare ed avere dei rapporti. I misteri possono apparire quando abbiamo tutto quello che vogliamo, siamo soddisfatti, ma in realtà stiamo male. Dove cercare allora ciò che non va?
La psicoterapia rappresenta soltanto uno degli aiuti allo sviluppo. Può essere utile se riesce a realizzare il potenziale umano nonostante i limiti della società. Potrebbe essere utile che tutti la vivessimo, potrebbe rappresentare una formazione di base sia per la vita affettiva ed emozionale, sia per l’armonizzazione delle nostre parti. Se invece vi ricorrono le persone quando stanno male, e solo se stanno male, per loro in qualche modo può essere tardi, o le motivazioni essere troppo indirette, e comunque può già essersi attenuato quel potenziale di energie vitali e spirituali che guida l’entusiasmo interno della persona.
Siamo fatti tutti di diverse parti, per esempio l’inconscio, l’io quotidiano ed il sé profondo. Il problema non riguarda un qualcosa di particolare che giace nell’inconscio, e che può essere ricordato e sciolto. Il problema è dato proprio dall’esigenza universale di armonizzare il funzionamento dell’inconscio con il funzionamento dell’io e del sé. Avendo noi queste parti, che non si possono presentare contemporaneamente sulla scena, il terapeuta svolge una funzione di specchio e di aiuto all’emersione dei contenuti dell’inconscio. Prende le parti dell’inconscio aiutando la consapevolezza. Per fare questo può anche invalidare i dati mentali dell’io in base alle effettive disposizioni ed indicazioni dell’inconscio.
Naturalmente la possibilità che un singolo terapeuta possa svolgere questa funzione, e che possa svolgerla in generale un formatore, dipende poi dal transfert, dalle sintonie effettive emergenti fra le due persone, che in quel momento funzionano come paziente-discepolo ed analista-formatore.
Possiamo quindi auspicare una formazione di base che riguardi i rapporti fra l’inconscio, l’io ed il sé. Ma per rendere possibile e feconda questa formazione, occorre pur sempre iniziare da se stessi. Se una persona ricorre ad un formatore, o ad un analista, senza iniziare un percorso personale, rischierà sempre una motivazione tecnica di delega, sostituendo la piacevolezza eventuale dell’operazione formativa e di chi la gestisce, al suo fulcro interiore di entusiasmo, che rimarrà nascosto.
Nessuno potrà mai darmi una mano nell’autosservazione di me stesso, nessuno potrà fornirmi un metodo od una tecnica oggettiva: rientrerei in una programmazione meccanica.
L’osservazione non riguarda ovviamente l’essere assorto nei miei pensieri, subire continuamente le ossessioni della mia mente. Posso essere il formatore e l’analista di me stesso ponendomi come osservatore distaccato. Significa osservare tutto ciò che vive e si esprime all’interno ed all’esterno di me stesso, fino nei particolari, fino all’estremo, e farlo come se tutto questo che vedo che osservo, accadesse a qualcun altro. Il segreto è non personalizzare e non identificarmi in quello che mi accade. Da una parte è molto difficile, dall’altra, mi sento quasi liberato e sollevato solo al pensarlo. Non dovere più prendere sul serio, farmi avvolgere dai miei pensieri, non lasciarmi più avvolgere da quelle emozioni e sensazioni che non riescono più a parlare da sole, ma si presentano piene del perché, del come, del quando e del come.
Vediamo meglio i personaggi di questo teatro che il mio essere esprime continuamente, senza interruzione…..sono raccomandate anzi le proiezioni notturne !Provo a domandarmi che cosa faccio, che cosa sto facendo. Provo a pensarci, non dovrebbe essere difficile, riguarda proprio quello che io faccio, saprò bene quindi che cosa faccio, lo voglio io ! Anche le cose che mi dicono gli altri di fare, poi sono sempre io che decido e che le faccio, no ? Quindi le saprò. Ed invece no. Provo e riprovo, ma tutto quello che faccio per la maggior parte del tempo rimane inconscio, al di fuori della mia consapevolezza. Sì, posso sapere in generale, forse, se sono andato a lavorare o chi ho incontrato. Ma la corrente concreta delle sensazioni, dei pensieri, ed anche delle azioni, tende a sfuggire.
Ma non mi sembra naturale? Se medito e se mi osservo, sono più attento, altrimenti sono immerso nella vita, mangio, dormo, mi alzo, lavoro, incontro. Sì ma, calma, ‘chi’ è che fa tutte queste cose? La mia totalità ? No, esiste una differenza. Esiste la totalità di me stesso, ma poi esiste una parte piccola di me che riflette su quello che sto facendo. Io, o qualche parte di me, riflette su di me. Siamo in due?
O siamo due persone che vivono in due luoghi diversi, o siamo due persone dentro di me. Finché non mi accorgo che esiste anche una terza persona, in me. Sono colui che fa qualcosa, sono colui che reagisce a questo fare, essendone contento o insoddisfatto, e sono anche l’osservatore che percepisce l’interazione fra colui che fa e colui che reagisce.
La psicologia può avere molti concetti per esprimere queste differenze, ma parto bene io, come vita, come mio movimento reale, non come apprendimento culturale, se faccio reale esperienza di questi singoli personaggi, di queste parti od istanze della mia persona.
Procedendo in questa via, posso riuscire a non identificarmi, a non cedere la mia identità alla prima emozione che passa. Non sono io ad essere ansioso, depresso, o pauroso, ma anche contento, libero, allegro, bensì sono questi strati emozionali ad attraversarmi, sono loro a passare, cambiare, mutare, secondo diverse esigenze, sicuramente anche grazie alle abitudini di pensieri e sensazioni cui mi sono abituato a lasciarmi andare. Ma chi sono io allora ? Sono il nucleo profondo di beatitudine, amore ed espansione che esiste di per sé, a prescindere da qualsiasi evento interno od esterno. Ma questa percezione può essere conquistata attraverso i processi di osservazione.
Posso avere senza dubbio molte sorprese. Posso accorgermi, come tutti, che il mio famoso io, cui mi riferisco sempre, non è poi così presente, docile e disponibile, come mi sembrava. Immerso nel fiume della vita sociale, della vita meccanizzata, mi ricordo poco di me stesso. Poche volte ho la piena consapevolezza di che cosa sento e penso. Questo mio io comune, sempre affezionato e complice, in realtà mi tradisce costantemente. Si dice presente, ma muta spesso. Sembra sempre lo stesso, ma si presenta in diversi momenti, con diverse personalità e tendenze. Sembra un amico intimo, ma mi consegna continuamente ai pensieri ed agli eventi interni ed esterni che sopraggiungono. Alle volte me li presenta tutti come amici, sembra tutto bello quello che arriva, sembra opportuno rispondere sempre, aprire sempre le porte, a qualsiasi pensiero si proponga. In questo modo cerca di nascondere la sostanziale costrizione che vivo ricevendo tutto. Non mi fa capire che non sono libero. Allora un po’ alla volta mi accorgo che il mio misterioso osservatore distaccato, apparentemente freddo e lontano, cerca di liberarmi dalle dipendenze verso gli eventi interni ed esterni, mi fa essere più rilassato e centrato, mi avvicina al centro dell’amore in me stesso.
Mi accorgo che l’inconscio non riguarda soltanto l’inconscio personale, contenitore dei miei blocchi e delle mie paure, come delle mie esperienze, dei miei desideri e progetti, non riguarda soltanto l’inconscio collettivo, ma comprende questa sistematica inconsapevolezza e meccanicità della vita comune. Là dove pensavo, come tutti, che ci fosse la luce della coscienza e della volontà, mi accorgo invece che sono uno schiavo. Mi accorgo che per non dormire, come tutti, per svegliarmi, per riconoscermi, devo realizzare un intenso lavoro su me stesso. Qualsiasi obiettivo io voglia raggiungere, vivere un amore ed esprimere una creatività, posso farlo soltanto procedendo verso gli stati di coscienza più vicini al mio sé personale.
Posso aiutarmi concentrandomi in spazi e tempi adatti. Non posso pensare di fermare improvvisamente il mondo interiore ed esterno. Posso scegliere dei momenti e delle condizioni limitate in cui esercitare questa funzione dell’osservatore distaccato. Quando aumenterò la forza ed il controllo, potrò disporre di diversi momenti, ed un po’ alla volta potrò estendere questa consapevolezza alla globalità della vita. Questo risultato non farà di me certamente una persona distaccata-fredda-indifferente, ma farà di me una persona non dipendente dagli eventi o dagli stati d’animo mutevoli, farà di me una persona che esprimerà le sensazioni dominanti della propria essenza. Mi eserciterò così a controllare i pensieri, favorendo i pensieri creativi e felici. Mi eserciterò a contenere le emozioni negative, fino a svuotarle. Riuscirò così a non inquinarmi continuamente con pensieri negativi, emozioni aggressive o tristi, preoccupazioni o pensieri che finiscono con il realizzare concretamente ciò che temono.
L’osservatore distaccato non è una nostra parte così oggettiva e fredda come potrebbe pensare. Non è impotente, non costituisce una forme di indifferenza oggettiva. Sì, il momento dell’osservazione distaccata opera un taglio alle identificazioni. Non nel senso che mandi via pensieri ed emozioni negative, ma dice che non sono sue, le compatisce, non le condivide, le svuota. Ecco, questo nostro meditatore osservatore è in realtà un alchimista. Non si limita ad osservare neutralmente, come quando guardiamo un film od un evento esterno. Facendo l’osservazione, realizzo un’operazione fondamentale: distacco la mia identificazione, tolgo la spina, disattivo, ed ho energie a disposizione per compiti diversi. Da sola, l’energia si distribuisce in un altro modo, si sposta meglio verso la matrice profonda, verso il mio sé.
Riprendo il potere e l’energia, a servizio del mio nucleo, al servizio di chi voglio diventare, di come voglio manifestare il mio essere. Al principio non ho la coscienza e la volontà, perché sono privo di energie, subisco un condizionamento continuo ed inconscio. Osservandomi, alimentando altre energie, mutando le abitudini, ecco che un po’ alla volta recupero energia. Cerco allora di comprendere meglio i miei numerosi io, di scegliere quelli che mi aiutano ad esprimere il mio sé, cerco di unificarli.
Vivo immerso nella vita: dormo, mi alzo, lavoro, incontro, penso, amo. Sì, ma, calma, ‘chi’ è che fa tutte queste cose? Esiste la totalità di me stesso, ma poi esiste una parte piccola di me che riflette su quello che sto facendo. Io, o qualche parte di me, riflette su di me. Siamo in due? Poi mi accorgo che esiste anche una terza persona, in me. Sono colui che fa qualcosa, colui che reagisce a questo fare, essendone contento o insoddisfatto, e sono anche l’osservatore che percepisce l’interazione fra colui che fa e colui che reagisce.
Mi conviene fare una reale esperienza di questi singoli personaggi, di queste parti od istanze della mia persona. Procedendo in questa via, posso riuscire a non identificarmi, a non cedere la mia identità alla prima emozione che passa. Non sono io ad essere ansioso, depresso, o pauroso, ma anche contento, libero, allegro, bensì sono questi strati emozionali ad attraversarmi, sono loro a passare, cambiare, mutare, secondo diverse esigenze, sicuramente anche grazie alle abitudini di pensieri e sensazioni cui mi sono abituato a lasciarmi andare. Ma chi sono io allora?
L’osservazione della nostra vita quotidiana può farci individuare l’esistenza di diverse parti del nostro carattere e della nostra personalità, fino a configurare la possibilità di interpretare presenti dentro di noi diverse persone. Esistono diversi gruppi di io (Cfr. P. D. Ouspensky, La quarta via, Astrolabio), che si alternano alla nostra percezione: ogni gruppo desidera e vuole cose diverse, ma s’ignorano reciprocamente, e l’assenza della consapevolezza accompagna questo continuo riaffiorare e riemergersi delle diverse identità. Chiaramente il mio comportamento risulterà un insieme di decisioni, valutazioni ed attese, generato dal risultato cieco dell’incrocio delle diverse influenze.
Nell’essere diviso in se stesso e contraddittorio possono emergere delle forme di resistenza e delle forme di rimorsi e di sensi di colpa, collegati con una misteriosa sensazione che sia possibile qualcosa di diverso. Emerge allora un’intuizione, il senso di una possibilità, qualcosa che possa fare riaffiorare aspetti più profondi e centrali. Certi comportamenti emananti da personalità o tendenze secondarie possono violentare talmente la tendenza centrale, che questa riesce a fare sentire la propria protesta.
Può succedere che un mio organo interiore (Cfr. il concetto di ‘centro magnetico’, in P. D. Ouspensky, La quarta via, Astrolabio), in alcune situazioni, possa recepire delle intuizioni, degli stimoli, che vadano al di là del piano dei condizionamenti meccanici. Se assecondo queste intuizioni, mi si risveglia una fascia di interessi, intuisco il possibile cammino verso il mio nucleo. Se il centro interiore si risveglia, la persona assume la possibilità di ‘essere se stessa’ in modo più unitario ed efficace. Si muove allora la parte profonda, spinge a sperimentare, conoscere, provocare le diverse parti, per decidere quali accettare e rinforzare. Se poi mi organizzo e realizzo un processo di trasformazione, posso conoscere e sperimentare la mia individualità. Sorge allora il desiderio ed il programma teso a realizzare l’unificazione della propria persona: “una volta giunti a riconoscere sperimentalmente quale, fra la molteplicità delle proprie tendenze, è la centrale, si tratta di assumerla nel proprio volere, di stabilizzarla, organizzando intorno ad essa tutte le tendenze secondarie o divergenti. E’ ciò che significa il dare una legge a sé stessi, la propria legge. Non sarà possibile infatti un’armoniosa unificazione se una parte della personalità non riesce a comandare ed a farsi ubbidire dalle altre tendenze. ‘Chi non sa comandare a sé stesso deve obbedire. E più d’uno può comandare a sé stesso, ma è ancor lungi dal saper obbedire a sé’.” (J. Evola, Cavalcare la tigre, Il Falco, p. 63)
Il desiderio ed il progetto di essere centrati e quindi di constatare e scoprire l’identità profonda, implica che l’uomo debba dare prova della propria forza. La persona si proporrà esperienze, problemi, imprese, in cui allenare il coraggio, l’intelligenza, il cuore, il corpo, in situazioni sempre più difficili e complesse. Tutto questo vuol dire percepire in se stessi la dimensione della trascendenza ed ancorarvisi (“Ma il peggiore nemico che puoi incontrare, sarai sempre tu per te stesso; nelle caverne e nelle foreste tu tendi l’agguato a te stesso. Da solo vai sul cammino che porta a te stesso! E il tuo cammino comprende anche te e i tuoi sette demoni! Un eretico sarai per te stesso e una strega e un indovino e un pagliaccio, uno che dubita, che non è santo, che è malvagio. Tu devi voler bruciare te stesso nella tua stessa fiamma: come potresti volere rinnovarti senza prima essere diventato cenere! Da solo tu vai sul cammino del creatore: dai tuoi sette demoni ti vuoi creare un dio!”. F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Adelphi, p. 72).
La norma di esser sé stessi presuppone che per ognuno si possa parlare di una ‘natura propria’ come di qualcosa di ben definito e di riconoscibile. Si tratta dell’unicità dell’individualità collegata ad un processo di autocreazione. Emerge allora la volontà di diventare capaci di tener fermo interiormente, nel proprio nudo, assoluto essere, di essere fedeli a se stessi, senza nulla temere e nulla sperare. Si tratta di avere una fede nella propria intuizione e volontà. Chiaramente l’essere se stessi implica il diventare se stessi, esige quindi l’affermazione dinamica e creativa del proprio movimento di realizzazione e di crescente superamento delle situazioni interne ed esterne.
“Il recidere ogni vincolo, l’insofferenza per ogni limite, il moto puro e incoercibile del superare, senza uno scopo determinato, del portarsi sempre più avanti di là da qualsiasi stato dato, da qualsiasi esperienza e idea, e, naturalmente, ancor più, di là da ogni attaccamento umano ad una data persona, non temendo né le contraddizioni né le distruzioni, quindi il movimento puro con tutto ciò che esso comporta di dissolutivo — ‘l’avanzare come fuoco divorante che nulla lascia dietro di sé’, queste sono le caratteristiche essenziali da spiegarsi appunto come tante forme di agire e di manifestarsi della trascendenza.” (J. Evola, Cavalcare la tigre, Il Falco, p 60-70)
Ad un primo livello abbiamo quindi il riconoscimento della ‘natura propria’ di una persona e la possibilità che questa diventi la legge, il progetto, il valore. Ad un secondo livello la persona cerca di affermarsi, si mette alla prova, sperimenta. Questo mettersi alla prova permette di scoprire la dimensione della trascendenza come percezione del nucleo non condizionato, che in quanto tale appartiene alla sfera profonda dell’essere, e non alla vita come aspetto dipendente dallo spirito. L’estrema intensità della vita si sviluppa fino quasi a capovolgersi, ad attraversare un cambiamento cosciente di polarità, ad aprirsi alla percezione del divino. A questo punto nella profondità della persona si ha l’incontro e la fusione fra la singola individualità determinata e la fonte divina trascendente. (J. Evola, Cavalcare la tigre, Il Falco, p 60-70)
“Lo stato di cui si tratta è quello di chi, sicuro di sé per aver come centro essenziale della persona l’essere, e non la vita, può andare incontro a tutto, può abbandonarsi a tutto e a tutto aprirsi senza perdersi: accettare dunque ogni esperienza, ora non più per provarsi e conoscersi ma per sviluppare tutte le proprie possibilità, in vista delle trasformazioni in sé che possono prodursi, dei contenuti nuovi che possono per tal via offrirsi e rivelarsi. In questo stato ciò che, venendo dall’esterno, altererebbe o sconvolgerebbe il proprio essere può dunque divenire lo stimolo per l’attivazione di una libertà e di possibilità sempre più vaste. La dimensione della trascendenza che si mantenga in ogni flusso e riflusso, in ogni ascesa e discesa, anche qui avrà la parte di un trasformatore” (J. Evola, Cavalcare la tigre, Il Falco, p. 68).
La vita assume una forma di dialettica fra il ‘fondo calmo’ dell’essere e l’immersione nella vita pienamente vissuta. La conseguenza di questa forma di alternanza fra l’immersione nel divino e l’espansione della vita genera una forma particolare di ebbrezza ‘sottilizzata e magnetica’. Non si tratta qui dell’apertura estatica al mondo della natura, ma della percezione dello spirito. Emerge allora una continuità nella formazione di se stessi che si presenta come invulnerabilità al mondo e come una forma di sovranità nella manifestazione della scintilla divina. Per sviluppare tutto questo “è necessaria anche una specie di libertà dal passato e dal futuro, l’intrepidezza di un animo libero dal vincolo del piccolo lo, l’essere ‘che si manifesta nella forma dell’’esser in atto”. (J. Evola, Cavalcare la tigre, Il Falco, p. 69)
“In ogni modo, l’importante è venire alla distinzione fra felicità (o piacere) bramosa e felicità (o piacere) eroica… Il primo genere di felicità o di piacere appartiene al piano naturalistico ed è contrassegnato dalla passività di fronte al mondo degli impulsi, degli istinti, delle passioni e delle inclinazioni. Il fondo dell’esistenza naturalistica è stato tradizionalmente indicato come desiderio e come sete, e piacere bramoso è quello che si lega al soddisfacimento del desiderio nei termini di un momentaneo lenimento dell’arsura che spinge avanti la vita. Il piacere ‘eroico’ è invece quello che accompagna un’azione decisa che parte dall’’essere’, dal piano superiore alla vita; in un certo modo, esso si confonde con la speciale ebbrezza…” (Cfr. J. Evola, Cavalcare la tigre, op. cit.)
Posso aiutarmi concentrandomi in spazi e tempi adatti. Non posso pensare di fermare improvvisamente il mondo interiore ed esterno. Posso scegliere dei momenti e delle condizioni limitate in cui esercitare questa funzione dell’osservatore distaccato. Quando aumenterò la forza ed il controllo, potrò disporre di diversi momenti, ed un po’ alla volta potrò estendere questa consapevolezza alla globalità della vita. Questo risultato non farà di me certamente una persona distaccata-fredda-indifferente, ma farà di me una persona non dipendente dagli eventi o dagli stati d’animo mutevoli, farà di me una persona che esprimerà le sensazioni dominanti della propria essenza. Mi eserciterò così a controllare i pensieri, favorendo i pensieri creativi e felici. Mi eserciterò a contenere le emozioni negative, fino a svuotarle. Riuscirò così a non inquinarmi continuamente con pensieri negativi, emozioni aggressive o tristi, preoccupazioni o pensieri che finiscono con il realizzare concretamente ciò che temono.
L’osservatore distaccato non è una nostra parte così oggettiva e fredda come potrebbe pensare. Non è impotente, non costituisce una forme di indifferenza oggettiva. Sì, il momento dell’osservazione distaccata opera un taglio alle identificazioni. Non nel senso che mandi via pensieri ed emozioni negative, ma dice che non sono sue, le compatisce, non le condivide, le svuota. Ecco, questo nostro meditatore osservatore è in realtà un alchimista. Non si limita ad osservare neutralmente, come quando guardiamo un film od un evento esterno. Facendo l’osservazione, realizzo un’operazione fondamentale: distacco la mia identificazione, tolgo la spina, disattivo, ed ho energie a disposizione per compiti diversi. Da sola, l’energia si distribuisce in un altro modo, si sposta meglio verso la matrice profonda, verso il mio sé.
Riprendo il potere e l’energia, a servizio del mio nucleo, al servizio di chi voglio diventare, di come voglio manifestare il mio essere. Al principio non ho la coscienza e la volontà, perché sono privo di energie, subisco un condizionamento continuo ed inconscio. Osservandomi, alimentando altre energie, mutando le abitudini, ecco che un po’ alla volta recupero energia. Cerco allora di comprendere meglio i miei numerosi io, di scegliere quelli che mi aiutano ad esprimere il mio sé, cerco di unificarli. Vedremo fra poco come concepire e gestire l’energia.
Già queste indicazioni mi fanno pensare ad un altro aspetto dei processi formativi, lontano, soprattutto oggi, dalle formazioni scolastiche o spirituali, diverso in parte anche da queste funzioni di osservazione.
Si tratta di un qualcosa che posso configurare, partendo dalla vita comune, come intenso allenamento per una causa precisa. Generalmente questa vita non richiede concentrazioni od investimenti a piena immersione. Anzi, impedisce di proposito tutto questo. Ma la stessa società non sopravvivrebbe se almeno in qualche ambito non occorresse quello che si potrebbe chiamare una grande costrizione per ottenere un grande potere. Ricordiamo l’intensità di un allenamento sportivo od artistico. La tensione verso il massimo sforzo sembra richiedere delle capacità precise di contenimento, sacrificio, concentrazione e slancio. Gli obiettivi sono miei personali, scelti da me, così pure grandi possono essere, e sono, le soddisfazioni profonde che si provano quando ci si cimenta.
Intendiamoci, rimango come gli altri. Come a tutti, ci sono i ripensamenti, le insicurezze, le paure, le voglie di fuggire, di rinunciare. Ma con l’aiuto del mio nucleo, degli interessi che emanano dal mio profondo, come pure con l’aiuto dei maestri e dei compagni di viaggio, trovo il modo di galvanizzarmi, di responsabilizzarmi, d’impegnarmi a fondo, di trovare l’entusiasmo nell’eroismo.
Questo percorso formativo mi sembra fondamentale, esiste solo in ambiti piegati al successo mondano o alle ambizioni di potere, ma può essere indirizzato verso la tendenza all’eccellenza, all’aristocrazia del perfezionamento. Potenzia profondamente tutte le facoltà, moltiplica le fonti di energia vitale, sessuale, mentale e spirituale, mette alla prova la propria essenza. Anche l’immersione nell’amore e nel piacere hanno bisogno di questa tensione verso il massimo sforzo, accompagnato dall’abbandono senza riserve, dall’apertura del cuore. La creatività si sviluppa sia con l’abbandono e l’ispirazione, sia con il controllo, la disciplina, lo sforzo. Ecco allora la formazione dell’osservazione e le vie spirituali, come le arti dell’amore, confluire nella pienezza della mia manifestazione. Lo sviluppo completo dell’uomo si traduce nella spiritualità come capacità di fare imprese nell’infinito.