Ostacoli e vie di accesso alla comunicazione
di Carl R. Rogers e F. J. Roethlisberger
Traduzione: Renata Cancellari
PARTE I: CARL R. ROGERS
Può sembrare curioso che, una persona come me, uno psicoterapeuta, sia interessato a problemi di comunicazione. Ma, in realtà, tutto il compito della psicoterapia è di trattare con un fallimento nella comunicazione. Nella gente disadattata emotivamente, la comunicazione con se stessi è in panne, e, di conseguenza, la loro comunicazione con gli altri è stata danneggiata. Per dirla in altro modo, i loro desideri inconsci, rimossi, o negati hanno creato distorsioni nel modo in cui essi comunicano con gli altri. Così essi hanno problemi sia all’interno di se stessi che nei rapporti interpersonali. L’obiettivo della psicoterapia è di aiutare l’individuo a raggiungere, attraverso un rapporto speciale con il terapeuta, una buona comunicazione all’interno di se stesso. Una volta raggiunto questo obiettivo la persona può comunicare più liberamente ed efficacemente con gli altri. Possiamo, quindi, dire che la psicoterapia è una buona comunicazione all’interno di se stessi e tra le persone. Questa affermazione non potrà mai essere messa in discussione. Una buona comunicazione, la libera comunicazione, all’interno di se stessi o in atto tra le persone è sempre terapeutica.
Attraverso la mia esperienza, nel counseling e nella psicoterapia, ho scoperto che c’è un principale ostacolo alla comunicazione: la tendenza della gente a valutare. Per fortuna, ho anche scoperto che, se le persone imparano ad ascoltare con comprensione, possono mitigare i loro impulsi di valutazione e migliorare, quindi, notevolmente la loro comunicazione con gli altri.
OSTACOLO: LA TENDENZA A VALUTARE
Abbiamo tutti un bisogno naturale di giudicare, valutare e approvare le dichiarazioni di un’altra persona. Supponiamo che qualcuno, commentando quello che ho appena detto, dicesse: “Non mi piace ciò che quell’uomo ha detto”. Come pensate di rispondere? Quasi sempre la vostra risposta sarà, o l’approvazione, o la disapprovazione del parere espresso. O si risponde, “Anch’io ho pensato che fosse terribile ciò che ha detto,” altrimenti si dice: “Oh, ho pensato che era davvero buono.” In altre parole, la prima reazione è quella di valutare dal proprio punto di vista.
Supponiamo, oppure, che io dico con una certa passione: “Penso che i democratici, con il comportamento di questi giorni, stanno mostrando molto buon senso” Qual è la vostra prima reazione? Molto probabilmente sarà valutativa. Vi troverete d’accordo o in disaccordo, magari esprimendo qualche giudizio su di me, come: “Deve essere un liberale”, o “Lui sembra sicuro di ciò che pensa.”
Anche se, effettuare una valutazione è comune nella maggior parte delle conversazioni con gli altri, questa reazione è accentuata in situazioni in cui i sentimenti e le emozioni sono profondamente coinvolti. Così, più i sentimenti sono forti, meno è probabile che ci sarà un elemento comune nella comunicazione. Ci saranno solo due idee, due sentimenti, o due giudizi che si annulleranno a vicenda dal punto di vista psicologico. Se mai avete assistito ad una calorosa discussione, in cui non eravate coinvolti emotivamente, probabilmente siete andati via pensando: “Beh, in realtà non stavano parlando della stessa cosa.” E, poiché era animata, è probabilmente giusto. Ogni persona è portata a formulare un giudizio, una valutazione, in base ad un personale quadro di riferimento. In questo caso non c’era niente che potesse essere chiamata comunicazione, nel vero senso della parola. Questo impulso a valutare eventuali dichiarazioni, emotivamente significative dal nostro punto di vista, è ciò che blocca la comunicazione interpersonale.
VIA DI ACCESSO: ASCOLTO CON COMPRENSIONE
Si è in grado di realizzare una comunicazione reale e, di evitare questa tendenza valutativa, quando si ascolta con comprensione. Questo significa vedere l’idea espressa e l’atteggiamento della persona dal punto di vista dell’altro, immedesimarsi, cioè, con l’altra persona, percependo ciò che l’altro prova e raggiungendo, così, il suo quadro di riferimento circa l’oggetto in discussione.
Questo può sembrare assurdamente semplice, ma non lo è. In realtà, si tratta di un approccio estremamente potente nella terapia psicologica. E ‘il modo più efficace che abbiamo trovato per modificare la struttura di base della personalità di un individuo e migliorare, così, la relazione con se stesso e la comunicazione con gli altri. Se posso ascoltare ciò che una persona mi racconta e capire, veramente, perché odia suo padre, o odia l ‘azienda, o odia i conservatori, o se posso cogliere l’essenza della sua paura della follia o la paura delle bombe nucleari, io sono maggiormente in grado di aiutare il suo alter ego a comprendere quelle avversioni e paure e stabilire relazioni realistiche e armoniose con le persone e le situazioni che risvegliarono tali emozioni. Sappiamo, dalle ricerche effettuate, che tale comprensione empatica è così efficace, che può portare significativi cambiamenti nella personalità.
Se pensate di avere ascoltato bene, eppure non si sono prodotti questi risultati, il vostro ascolto probabilmente non è stato del tipo che sto descrivendo. Ecco un modo per testare la qualità della vostra comprensione. La prossima volta che entrate in un argomento con il coniuge, un amico, o un piccolo gruppo di amici, fermate la discussione per un attimo e suggerite questa regola: prima di parlare sul tema ognuno deve, innanzitutto, riformulare con precisione le idee e i sentimenti di chi ha parlato prima, in modo che chi ha parlato sia soddisfatto di come è stato percepito. Osservate ciò che questa cosa comporta. Prima di presentare il proprio punto di vista, si dovrebbe avere ben chiaro il quadro di riferimento dell’altro. Sembra semplice, no? Ma se provate a fare ciò, troverete che questa è una delle cose più difficili che abbiate mai cercato di fare. E anche quando siete stati in grado di farlo, i vostri commenti dovranno essere drasticamente rivisti. Ma proverete, anche, l’emozione di constatare che le differenze sono annullate o ridotte e, quelle che rimangono, sono razionali e comprensibili. Potete immaginare cosa questo tipo di approccio potrebbe realizzare in più ampi campi? Cosa accadrebbe in una controversia sul modo di gestire un lavoro, se, senza subire una decisione, il lavoratore potesse esprimere esattamente il proprio punto di vista in modo accettabile per la dirigenza e se la dirigenza, per evitare che il lavoro sia fermo, decidesse di sospendere la controversia, a patto di arrivare ad un accordo preciso sul modo di gestire il lavoro?
Vorrebbe dire che la comunicazione vera e propria è stata stabilita e che una soluzione ragionevole, quasi sicuramente potrà essere raggiunta. Allora, perché questo approccio, questo tipo di “ascolto” non è più ampiamente utilizzato? Ci sono diversi motivi. Mancanza Di Coraggio. Ascoltare con comprensione significa assumersi un rischio molto reale. Se davvero si è disposti a capire un’altra persona in questo modo, se si è disposti ad entrare nel suo mondo privato e percepire il modo in cui vede la vita, senza alcun tentativo di dare giudizi valutativi, si corre il rischio di essere cambiati. Si potrebbero vedere le cose a modo suo, si potrebbe scoprire che ha influenzato il vostro atteggiamento o la vostra personalità.
La maggior parte di noi ha paura di correre questo rischio. Non potendo ascoltare così, perché sembra troppo pericoloso, ci troviamo costretti a valutare l’ascolto. Intense emozioni. In accese discussioni, le emozioni sono più forti, per cui è particolarmente difficile comprendere il punto di vista di un’altra persona o gruppo. Eppure, è proprio allora che è richiesto un buon ascolto, se si vuole stabilire una buona comunicazione.
Una soluzione è quella di utilizzare un terzo, che è capace di mettere da parte i propri sentimenti e valutazioni, per ascoltare con comprensione ogni persona o gruppo e, quindi, chiarire le opinioni e gli atteggiamenti che ognuno assume.
Questo metodo è risultato efficace in piccoli gruppi, in cui esistono atteggiamenti contraddittori o antagonistici. Quando le parti di una controversia sentono di essere capite, sentono che qualcuno comprende il loro punto di vista, le loro esternazioni sono meno esagerate e meno difensive, e non è più necessario mantenere l ‘atteggiamento: “Io sono al 100% giusto e voi siete al 100% sbagliati”. Molte persone hanno paura di ascoltare perché ciò che sentono potrebbe farle cambiare L’influenza di tale comprensione catalizzatrice nel gruppo permette ai membri di avvicinarsi e di vedere la verità oggettiva della situazione. Questo porta ad una migliore comunicazione, ad una maggiore accettazione gli uni degli altri, e ad atteggiamenti che sono più positivi e più disponibili a risolvere naturalmente i problemi. Vi è una diminuzione degli atteggiamenti difensivi, delle dichiarazioni esagerate, dei comportamenti valutativi e critici. La comunicazione reciproca è stabilita, e qualche tipo di accordo diventa molto più probabile.
Un Gruppo troppo grande. Finora, gli psicoterapeuti hanno potuto osservare solo piccoli gruppi faccia-a-faccia, che stanno lavorando per risolvere tensioni religiose, razziali o industriali, o tensioni personali che sono presenti in molti gruppi di terapia. Che dire della tentazione di arrivare alla comprensione tra gruppi più grandi, che sono lontani, attraverso gruppi faccia a faccia, che non parlano per se stessi ma semplicemente come rappresentanti dei gruppi più grandi? Francamente, non sappiamo rispondere. Sulla base della nostra conoscenza limitata, tuttavia, ci sono alcuni passi che anche i grandi gruppi possono intraprendere per aumentare la quantità di ascolto e diminuire la quantità di valutazione.
Per essere fantasiosi, per un momento, supponiamo che un gruppo internazionale, terapeuticamente orientato, vada in ciascuno dei due paesi coinvolti in una controversia e dica: “Vogliamo raggiungere una reale comprensione dei vostri punti di vista e, ancora più importante, dei vostri atteggiamenti e sentimenti verso il paese X. Noi possiamo riassumere e sintetizzare i vostri punti di vista e sentimenti, se necessario, finché non convenite che la nostra descrizione rappresenta il vostro punto di vista sulla situazione.”
Se poi le descrizioni di questi due punti di vista fossero ampiamente diffuse, come potrebbero non avere un grande effetto? Non sarebbe una garanzia il tipo di comunicazione che ho descritto, ma renderebbe la comprensione più possibile. Siamo in grado di capire i sentimenti delle persone che ci odiano, molto più facilmente, quando i loro atteggiamenti sono accuratamente descritti a noi da un terzo neutrale, rispetto a ciò che possiamo comprendere quando sono agitati i pugni verso di noi.
La comunicazione attraverso un moderatore, che ascolta non valutando e con comprensione, si è dimostrata efficace, anche quando i sentimenti sono forti. Questa procedura può essere avviata da una parte, senza aspettare che l’altro sia pronto. Può anche essere iniziata da un soggetto terzo neutrale, a condizione che possa contare su un minimo di collaborazione di una delle parti.
Il moderatore può affrontare le insincerità, le esagerazioni difensive, le menzogne, e gli atteggiamenti sleali che caratterizzano quasi ogni fallimento nella comunicazione. Queste distorsioni difensive cadono, con una velocità sorprendente, quando le persone trovano qualcuno la cui intenzione è quella di capire e non quella di giudicare. E quando una parte inizia a calare le sue difese, l’altro, di solito, risponde in modo amichevole e, insieme, cominciano a scoprire i vari aspetti di una situazione.
A poco a poco, la comunicazione reciproca cresce. Essa conduce ad una situazione in cui si chiarisce il problema, e si vede come appare ad ognuno. Così, accuratamente e realisticamente definito, il problema è quasi certo si aprirà a soluzioni intelligenti, o, se è in parte insolubile, ciò sarà accettato, tranquillamente, come tale.
PARTE II: F. J. ROETHLISBERGER
Quando si pensa ai numerosi ostacoli alla comunicazione personale, in particolare a quelli dovuti a differenze di formazione, esperienze e motivazioni, sembra incredibile che due persone possano mai capirsi. I problemi sembrano particolarmente accentuati nel contesto di un rapporto caposubordinato. Com’è possibile la comunicazione quando le persone non vedono le cose nello stesso modo o non condividono gli stessi valori? Su questa questione ci sono due scuole di pensiero. Una scuola presuppone che, la comunicazione tra A e B, viene meno quando B non accetta ciò che A ha da dire in quanto, a prescindere se ciò che dice è vero o falso, l’obiettivo della comunicazione è quello di ottenere da B di concordare con le opinioni di A, su idee, fatti, o informazioni.
L’altra scuola di pensiero è molto diversa. Si presuppone che la comunicazione non riesce quando B non si sente libero di esprimere i suoi sentimenti ad A, perché B teme che non saranno accettati da A. La comunicazione è facilitata quando A o B o entrambi sono disposti ad esprimere ed accettare le differenze.
Per chiarire, si supponga che Bill, un impiegato, è nell’ufficio del suo capo. Il capo dice: “Io penso, Bill, che questo è il modo migliore per fare il tuo lavoro.” E a ciò, Bill risponde: “Ah sì?” Secondo la prima scuola di pensiero, questa risposta sarebbe un segno di scarsa comunicazione. Bill non capisce perché quello proposto dal capo è il modo migliore per fare il suo lavoro. Per migliorare la comunicazione, quindi, è compito del capo di spiegare a Bill perché il suo e non quello di Bill è il modo migliore.
Dal punto di vista della seconda scuola, la risposta di Bill è un segno di comunicazione né buona né cattiva, è indeterminata. Ma il capo può cogliere l’occasione per scoprire che cosa pensa Bill. Supponiamo che questo è ciò che sceglie di fare. Quindi questo capo cerca di far parlare di più Bill del suo lavoro. Noi chiameremo il capo che rappresenta la prima scuola di pensiero “Smith” e il capo della seconda scuola “Jones”.
Date situazioni identiche, ognuna viene affrontata in modo diverso. Smith decide di spiegare, Jones decide di ascoltare. Nella mia esperienza la risposta di Jones funziona meglio di quella di Smith, perché Jones potrà fare, rispetto a Smith, una valutazione più corretta su quanto sta accadendo tra lui e Bill. “AH SÌ?”
Si suppone che Smith capisce che cosa significa quando Bill dice: “Ah sì?” quindi non c’è bisogno di scoprirlo. Smith è sicuro che Bill non capisce perché, quello da lui proposto, è il modo migliore per fare il suo lavoro, così Smith glielo spiega. In questo processo, supponiamo che Smith è logico, lucido e chiaro. Egli presenta la sua idea con fatti e prove. Ma, ahimè, Bill non è convinto. Che cosa può fare Smith? Partendo dal presupposto che ciò che sta accadendo tra lui e Bill è essenzialmente logico, Smith può trarre solo una di queste due conclusioni: (1) o di non essere stato abbastanza chiaro; (2) o che Bill è troppo stupido per capire. Quindi deve “precisare” le sue parole sillabandole o rinunciare.
Smith è riluttante ad arrendersi, e così continua a spiegare. Che cosa succede? Più Smith non riesce a farsi capire da Bill, più si sente frustrato, più diminuisce la sua capacità di ragionare logicamente. Dal momento che lo stesso Smith vede se stesso come una persona ragionevole, questa cosa è per lui difficile da accettare. E ‘molto più facile, per lui, pensare che Bill sia stupido o non collaborante. Questa valutazione influisce su ciò che Smith dice e fa.
Per effetto di queste sue impressioni Smith valuta Bill, sempre più, in base al suo solo punto di vista e tende a trattare Bill come non importante, negando, sostanzialmente, l’unicità e le differenze di Bill, tratta Bill, come se avesse scarsa capacità di auto gestione.
Chiaramente, Smith non si accorge che sta facendo queste cose. Traccia febbrilmente segni e geroglifici sul retro di una busta, cercando di spiegare a Bill perché il suo è il modo migliore di fare il lavoro Smith sta cercando di essere utile. È un uomo di buona volontà e vuole impostare il lavoro di Bill nel modo giusto. Questo è il modo in cui Smith vede se stesso e il suo comportamento. Ma è proprio per questo che Bill “Ah sì?” è sottomesso a Smith.
“Come può questo ragazzo essere muto?” è l’atteggiamento di Smith, e purtroppo Bill si sentirà, al di la delle buone intenzioni di Smith, non compreso. Egli non vedrà Smith come un uomo di buona volontà, che sta cercando di essere utile. Piuttosto lo percepirà come una minaccia alla sua autostima e alla sua integrità personale. Da questa minaccia Bill sentirà il bisogno di difendersi a tutti i costi. Non essendo così logicamente articolato come Smith, Bill esprimerà questa esigenza dicendo, ancora, “Ah sì?”
Lasciamo questa scena triste tra Smith e Bill, che temo finirà con Bill maltrattato o cacciato dall’azienda di Smith e torniamo, per un momento, a Jones, per vedere come sta interagendo con Bill. Jones, ricordate, non presuppone di sapere che cosa significa quando Bill dice: “Ah sì?”, così lo deve scoprire. Inoltre, si presuppone che, quando Bill ha detto questo, non aveva esaurito il suo vocabolario o suoi sentimenti. Bill non può significare solo una cosa, ma diverse cose. Così Jones decide di ascoltare.
In questo processo, Jones non crede che ciò che accadrà sarà uno scambio puramente logico. Piuttosto, presume, che ciò che accadrà sarà principalmente un’interazione di sentimenti. Pertanto, non può ignorare i sentimenti di Bill, l’effetto dei sentimenti di Bill su di lui, o l’effetto dei suoi sentimenti su Bill. In altre parole, lui non può ignorare il suo rapporto con Bill, lui non può pensare che non conti nulla ciò che Bill pensa o sente, invece quando Bill dice: “Ah sì?” Smith sente “eh?” e comincia a spiegare.
Pertanto, Jones presterà molta attenzione a tutte quelle cose che Smith ha ignorato. Sarà lui stesso ad affrontare i sentimenti di Bill, i suoi sentimenti, e l’interazione tra loro. Jones, quindi, si rende conto che ha turbato i sentimenti di Bill con il suo commento: “Credo, Bill, che questo è il modo migliore per fare il tuo lavoro.” Così, invece di cercare di far capire a Bill, lui decide di cercare di capire Bill. Lo fa incoraggiando Bill a parlare. Invece di fare deduzioni su come Bill è, pensa o sente, pone domande a Bill, “È questo ciò che senti?” “È questo quello che vedi?”
“È questo ciò che evinci?” Invece di ignorare le valutazioni di Bill come irrilevanti, non pertinenti o false, Jones cerca di comprendere la realtà di Bill, come la sente, la percepisce, e si immagina che sia. L’apertura al dialogo di Bill risveglia la curiosità di Jones per lui come persona “Bill non è così stupido, lui è un ragazzo molto interessante” diventa l’atteggiamento di Jones. E questo è ciò che Bill sente. Quindi Bill si sente compreso e accettato come persona. Egli diventa meno difensivo.
Bill si sente in un ambiente adatto per esplorare ed esaminare le sue percezioni, i suoi sentimenti e i suoi punti di vista. Bill si sente libero di esprimere le sue opinioni diverse. In questo processo Jones è una fonte di aiuto e Bill sente che Jones rispetta la sua capacità di auto-gestione. Questi sentimenti positivi fanno si che Bill sia più incline a dire: “Bene, Jones, non sono del tutto d’accordo con te che questo è il modo migliore per fare il mio lavoro, ma ti dirò che cosa posso fare, proverò a farlo in quel modo per qualche giorno, e poi ti dirò quello che penso.”
Ammetto che i due orientamenti non funzionano, in pratica, in modo così netto come li ho scritti. Ci sono molti altri modi in cui Bill avrebbe potuto rispondere a Smith, nel primo caso. Egli avrebbe anche potuto dire: “OK, capo, sono d’accordo che il tuo modo di fare il mio lavoro è migliore.” Ma ancora Smith non avrebbe saputo cosa Bill provava quando faceva questa affermazione, o se Bill era effettivamente intenzionato a fare il suo lavoro in modo diverso. Allo stesso modo, Bill avrebbe potuto rispondere a Jones in modo diverso. Nonostante l’atteggiamento di Jones, Bill avrebbe potuto essere ancora riluttante ad esprimere al capo, liberamente, il suo parere.
Tuttavia, questi esempi mi danno materiale per poter fare le seguenti generalizzazioni:
- Smith rappresenta un modello molto comune di malinteso. L’equivoco non deriva dal fatto che Smith non è abbastanza chiaro ad esprimersi, piuttosto dal fatto che, Smith non da valore a ciò che accade quando due persone parlano tra loro, non da valore all’interazione.
- Il fraintendimento di Smith, riguardo al processo di comunicazione personale, si basa su presupposti molto comuni: che ciò che sta avvenendo è qualcosa di logico, che le parole significano qualcosa in sé e per sé, a prescindere dalle persone che parlano tra loro, e che lo scopo dell’interazione è quello di ottenere che Bill veda le cose dal punto di vista di Smith.
- Questi presupposti innescano una reazione a catena di percezioni e sentimenti negativi, che bloccano la comunicazione. Ignorando i sentimenti di Bill e razionalizzando il proprio, Smith ignora il suo rapporto con Bill come un fattore determinante della loro comunicazione. Come risultato Bill sente l’atteggiamento di Smith in modo più immediato che non il contenuto logico delle sue parole. Bill sente che la sua unicità è stata negata. Dal momento che la sua integrità personale è in gioco, diventa difensivo e belligerante, ciò vanifica lo sforzo di Smith. Smith percepisce Bill come stupido e, così, dice e fa cose che rendono Bill ancora più difensivo. Jones, invece, sente la necessità di un chiarimento e decide di chiedere a Bill delucidazioni.
- Jones parte da presupposti diversi: che ciò che sta avendo luogo tra lui e Bill è un’interazione di sentimenti, che Bill come persona e non solo le sue sole parole, significano qualcosa, e che l’oggetto dell interazione, è quello di dare la possibilità a Bill di esprimere se stesso.
- Questi presupposti producono una reazione a catena di eventi psicologici di rafforzamento dei sentimenti e delle percezioni, che facilita la comunicazione tra Bill e Jones. Quando Bill avverte che Jones è interessato a conoscere il suo punto di vista sulla situazione, si sente compreso e accettato come una persona, si sente libero di esprimere le sue differenti opinioni. Bill vede Jones come una fonte di aiuto; Jones vede Bill come una persona interessante. Bill, a sua volta, diventa più cooperativo.
Se ho individuato correttamente questi modelli, molto comuni, di comunicazione personale, allora ne possiamo trarre alcune ipotesi interessanti: il metodo di Jones funziona meglio di quello di Smith, non in virtù di magia, ma perché Jones ha una mappa migliore del processo di comunicazione personale. Il metodo di Jones, però, non è solo esercizio intellettuale, esso dipende dalla capacità di Jones e dalla sua volontà di vedere e accettare punti di vista diversi dal suo e di praticare questo orientamento in un rapporto a tu per tu. Questo è un risultato emozionale e intellettuale. Esso dipende in parte dalla consapevolezza di Jones di se stesso, in parte dall’aver acquisito delle competenze in materia.
Anche se le università cercano di ottenere dagli studenti la capacità di apprezzare, almeno intellettualmente, punti di vista diversi dai loro, poco viene fatto per aiutarli ad apprendere l’applicazione di questo apprezzamento intellettuale a semplici relazioni a tu per tu. Gli studenti sono addestrati per essere logici e chiari, ma nessuno li aiuta ad imparare ad ascoltare abilmente. Come risultato, in questo nostro mondo così educato, ci sono troppi Smith e troppi pochi Jones. Il più grande ostacolo alla comunicazione tra due persone, è la loro incapacità di ascoltarsi reciprocamente, in modo intelligente, comprensivo e abile. Questa carenza nel mondo moderno è molto diffusa e terribile. Abbiamo bisogno di compiere maggiori sforzi per educare la gente alla comunicazione efficace, il che significa, in sostanza, insegnare alla gente come ascoltare.
Nota sugli autori:
Il defunto Carl R. Rogers quando ha scritto questo articolo, era professore di psicologia presso l’Università di Chicago. Molti dei suoi libri trattano l’innovativa terapia “Centrata sul Cliente” (Houghton Mifflin, 1951). Il defunto Roethlisberger era professore, preside Wallace Brett Donham, di Relazioni Umane presso la Harvard Business School. Egli è l’autore di Man-in-Organization (Harvard University Press, 1968) ed altri libri e articoli. Questo articolo è originariamente apparso su HBR luglio-agosto 1952.
COMMENTO A POSTERIORI
di John J. Gabarro
Leggendo “Ostacoli e Vie di Accesso alla Comunicazione” oggi, è difficile capire il trambusto creato da questo articolo, quando fu pubblicato la prima volta. Ma nel 1952, le idee di Rogers e Roethlisberger circa l’importanza di ascoltare, erano davvero innovative. Non solo hanno tracciato un nuovo territorio, che è stato un anatema per la grigia etica del tempo, cioè l ‘idea che i sentimenti delle persone contano. ma hanno, anche, raggiunto, con i loro concetti, i luoghi sacri dei rapporti gerarchici, suggerendo ai manager di prendere sul serio i pensieri e i sentimenti dei loro subordinati.
Oggi, tuttavia, le loro intuizioni sono così radicate da essere ovvie, il che mostra quanto impatto hanno avuto le loro idee e quanto ne ha risentito la gestione della comunicazione. In che modo? I manager moderni hanno una maggiore comprensione di quanto sia importante
l’ascolto per una buona comunicazione. Tuttavia, la maggior parte, ha ancora difficoltà a mettere in pratica questi concetti. Una ragione potrebbe essere proprio la loro mentalità sofisticata: i concetti semplici sono facili da dimenticare. Un’altra ragione, tuttavia, potrebbe essere che questi concetti, dopo tutto, non sono così semplici, che ciò che gli autori hanno espresso 40 anni fa, è più difficile da fare di quanto sembri ed è, in realtà, solo una parte del percorso. Il vantaggio di rivisitare R&R, quindi, è, sia quello di ricordare a noi stessi quanto siano ancora rilevanti, anzi davvero potenti, le loro intuizioni, sia di mettere in rilievo, dal punto di vista di 40 anni, dopo ciò che R&R possono avere trascurato. Ciò che oggi risuona più forte per il mondo delle imprese, sono tre intuizioni che, di fatto, trascendono i confini istituzionali e sociali: sono gli ostacoli e le vie di accesso alla comunicazione che, come gli autori dimostrano, si possono verificare tra due nazioni, così come, tra due individui
Queste intuizioni hanno resistito perché sono verità fondamentali sull’interazione umana:
1) Il più grande ostacolo alla comunicazione efficace è la tendenza a valutare ciò che un’altra persona sta dicendo e, quindi, di fraintendere o di “non sentire proprio”. Il rapporto tra Bill e Smith, che descrive chiaramente questo processo, oggi risuona ancora più vero, perché problemi di comunicazione avvengono quasi normalmente. Possono, infatti, verificarsi, più facilmente, negli ambienti di lavoro di oggi che sono, probabilmente, più complessi. Una maggiore diversificazione della forza lavoro, per esempio, può complicare la comunicazione, in quanto diventa sempre più difficile stabilire un linguaggio comune su opinioni ed esperienze condivise.
Infatti, se nel 1952 Roethlisberger pensava che “era straordinario” che due persone potessero comunicare, date le loro “differenze di formazione, esperienze, e motivazioni”, avrebbe, sicuramente, pensato ad un miracolo oggi.
2) Il controllo della tendenza naturale a giudicare, produce una migliore comprensione della persona con cui si sta comunicando. Naturalmente, una maggiore diversità, rende ancora più importante disciplinare l’ascolto, perché il rischio di un malinteso è maggiore. Questa strada, quindi, è più vitale che mai. Sospendendo ipotesi e giudizi, un manager può arrivare a percepire i sentimenti di un dipendente, ed avere così una comprensione migliore di quanto il lavoratore sta esprimendo oltre le parole.
3) Una migliore comprensione del punto di vista dell’altra persona aiuta a comunicare meglio. La comunicazione efficace è fatta, in parti uguali, di ascolto ed espressione, la chiarezza dell’uno dipende dalla chiarezza dell’altra. Un manager, con una visione più chiara di colui con il quale sta parlando, è in grado di esprimersi con maggiore precisione. Queste intuizioni sono state d’impulso ad una serie di iniziative aziendali per metterle a conoscenza dei dipendenti. Quando un manager mostra una disponibilità ad ascoltare un dipendente, ha più probabilità di generare fiducia e onestà.
Incoraggiando il lavoratore a parlare esplicitamente, senza paura di rappresaglie, si aumenta la fiducia in se stesso, perché egli vede che l’organizzazione da valore al suo contributo. Ancora di più, il manager può, così, acquisire informazioni molto importanti. Si consideri che, la tecnica dell’”ascolto attivo”, sviluppata intorno al 1970, è ancora, largamente, utilizzata in molti programmi di gestione e formazione alla vendita. Un venditore che applica l’ascolto attivo, per esempio, non risponde subito a ciò che sta dicendo un eventuale cliente, ma riformula, per accertarsi che ha veramente capito il punto di vista del cliente.
I vantaggi sono duplici. In primo luogo, questo processo riduce al minimo la probabilità che il venditore anteponga i propri punti di vista alle esigenze del cliente, in secondo luogo, il cliente si sente ascoltato e capito. Alla fine, però, R & R hanno avuto troppa fiducia nell’ ascolto non giudicante. I ricercatori, lavorando in questo campo, e i manager cercando di applicare questi principi nella loro attività, si sono resi conto di come gli autori erano eccessivamente ottimisti. Innanzitutto, una delle premesse fondamentali, che si evince anche se non dichiarata esplicitamente e cioè, che la comprensione equivale a risoluzione dei problemi, non è sempre vera. La comprensione può migliorare il processo di negoziazione ma, diverse ricerche hanno dimostrato, dal lavoro di Richard Walton sui rapporti di lavoro, a quello di Roger Fisher sui negoziati internazionali, che essa da sola non può risolvere tutti i conflitti.
Seconda cosa, il processo di stabilire la fiducia non dipende da un unico fattore, come R&R ritengono. Jones non sarebbe, probabilmente, in grado di garantire la fiducia di Bill, semplicemente mostrando un impegno all’ascolto non giudicante. Bill valuterà molti altri aspetti del comportamento e del carattere di Jones per decidere se parlare, o meno, apertamente con lui: le sue motivazioni, la sua discrezione, la coerenza del suo comportamento e, anche, la sua competenza manageriale. Solo se queste valutazioni saranno positive, Bill risponderà sinceramente alle aperture di Jones. Così, di norma, un livello minimo di confidenza è necessario, per provocare il tipo di affidamento che la comunicazione sincera richiede. Questo è particolarmente vero quando c’è uno squilibrio di potere, che tende a generare una maggiore diffidenza iniziale. (Ciò accade dinamicamente ad entrambe le parti: un dipendente può diffidare del suo manager per paura di rappresaglie, ma un manager può diffidare del suo dipendente, per paura che egli dirà solo ciò che egli vuole sentire).
Infine, oggi, i manager si scontrano con ostacoli di comunicazione ulteriori rispetto a quelli che R&R avevano immaginato. Uno è la pressione del tempo. Per ascoltare attentamente ci vuole tempo, e i dirigenti ne hanno ben poco. Nella cultura aziendale di oggi, soprattutto, con la sua enfasi sulla velocità (mail giorno e notte, computer più veloci, la concorrenza da battere sul tempo), i manager, già sotto pressione, possono prestare poca attenzione alla lenta arte della comunicazione uno ad uno. Un altro ostacolo, in questa epoca di fusioni e acquisizioni, è l’insicurezza e il timore che essa genera.
Quando ridimensionamenti e licenziamenti incombono, sia i Bill che i Jones di questo mondo hanno buone ragioni per non aprirsi, soprattutto se credono che, i loro veri sentimenti o convinzioni, possono farli licenziare.
Anche così, tali limiti, non riescono a spiegare del tutto perché, dopo circa 40 anni, un venditore può conquistare clienti con l’ascolto attivo, ma un manager non riesce ad avere la minima idea di come spuntarla con i propri dipendenti. Questo perché i manager hanno un altro ostacolo, ancora più importante, quello che io chiamo il paradosso manageriale: mentre è fondamentale che i manager siano in grado di ascoltare senza giudicare (per capire altri punti di vista e ottenere valide informazioni), l ‘essenza del management è di fare proprio il contrario, di formulare giudizi.
I manager sono chiamati, quotidianamente, a valutare linee di prodotti, mercati, numeri, e, naturalmente, le persone e, a loro volta, sono valutati a seconda di quanto fanno bene queste valutazioni. Il pericolo è, quindi, che, questa necessità di giudicare, sovverta l’inclinazione di un manager ad ascoltare con attenzione e che, così facendo, ostacoli la propria capacità di prendere decisioni accurate negli affari e di giudicare, in modo adeguato, le persone.
I manager possono essere tentati di risolvere questo paradosso come un aut-aut, a motivo del fatto che, raramente, nella loro formazione vi sono due mentalità conciliabili. Le scuole di business, per la maggior parte, ancora sostengono l’ascolto giudicante, insegnando agli studenti a difendere le proprie posizioni per riuscire a spuntarla sugli altri, mentre, gli esperti comportamentali, che si basano sull’ ascolto non valutativo, tendono a concentrarsi quasi esclusivamente sull’importanza dell’empatia. Ma, se una cosa è venuta in rilievo negli ultimi 40 anni, è che i manager devono vere la capacità di fare entrambe le cose. Devono riconoscere quando è opportuno dare giudizi e quando è necessario non darli.
1. John.J. Gabarro, della Fondazione UPS, è professore di Gestione delle Risorse Umane presso la Harvard Business School. È autore o coautore di cinque libri, tra cui “ Il Comportamento Interpersonale” scritto con Anthony G. Athos (Harvard Business School Press, 1987) e” “La Dinamica della Presa in Carico” (Prentice Hall, 1978)