Il risentimento
Testo di: Paola Grassi
La cifra filosofica del risentimento è quella di una aporetica e il clima entro cui si risolve è quello del paradosso; da una parte, nel concetto di ressentiment (che si impone alla terminologia filosofica della modernità con Nietzsche) v’è il ritorno nella memoria di una ferita (vulnus) che si vorrebbe cancellare, ma che non si può (e per certi versi non si vuole) cancellare; dall’altra, tuttavia, v’è anche la consapevolezza che questo ri-sentire il dolo è una capacità feconda, che è quella di tenere sempre presente l’offesa e il torto subito. L’aporia del risentimento si gioca, in altri termini, tra la sua incancellabilità e la sua rammemorazione.
E’ di nuovo dall’orizzonte della sensorialità (come nel caso dell’ascolto, e ancora una volta proprio a partire da una acusmatica) che entriamo nel campo semantico del risentimento, il cui primo segmento di senso è «udire di nuovo», ri-sentire, ed il cui prefisso re- vale come addietro, ritornare ad apprendere con i sensi qualcosa che s’è già appreso, sentire o provare di nuovo gli effetti di checchessia, ed in modo speciale i più dolorosi. Ed allora sarà come «reincontrare il dolo» e patire nuovamente.
Il risentimento è una doglianza, un richiamo sdegnoso, e sarà risentito colui o colei che risponde con sdegno, in modo vivo, ardito, piccante (se è vero che in greco sono detti pikkoi sia coloro che si comportano da rancorosi, che tutte quelle cose che hanno un sapore o un carattere amaro). Non si dice forse dell’essere risentiti che ci si sdegna, che ci si picca? E perché? Perché il patimento, la sofferenza e il dolo si sono fatti insopportabili e allora «io risento di», «non reggo a», «non resisto a», «non tollero».
Se lo pensiamo nel quadro di una geometrica, il risentimento esce fuori da una omogeneità di forma, se è vero che in architettura «risentito» è sinonimo di sporgente e rilevato. E il sapore del risentimento è quello del rancore, che ha la proprietà della rancidia, e il suo è l’odore acre e disgustoso che prendono le sostanze vecchie e andate a male, stantìe. E come il rancore, il risentimento è tenace, non si dimentica del dolo e del patimento, e come una ferita che non riesce a sanarsi le emozioni del risentimento incistiscono su quell’ultimo lembo di «mondo interno» che è il nostro corpo, avvelenandoci fino alla paralisi della volontà.
Esemplare è, in questo senso, l’invidia, e quella palude del sentire che si apre all’invidioso, che è colui o colei che non ha potuto trascendere il rancore, lasciando che il veleno del risentimento facesse il suo corso. E’ pur vero, d’altra parte, che risentirsi significa recuperare il senso perduto, onde il significato di svegliarsi, ridestarsi, ravvivarsi, rifarsi vivo per rispondere con giusto sdegno all’offesa, e quindi riprendere forza e vigore al fine di reggerne il peso.
La prima è più immediata manifestazione del risentimento è quella che matura nei confronti della persona o delle persone che ci hanno fatto torto; si tratta di qualcuno che ci ha causato sofferenza e determinato tristezza o di qualcuno che ci ha insultato «quando proprio non ce lo meritavamo».
Qualcuno potrebbe risentire del fatto di difettare di bellezza o di talento o di gusto, quand’altri no, e quindi essere oggetto non di dolo, ma di mancanza; ciò di cui risentiamo nel senso in cui lo intendiamo qui, tuttavia, non è ciò che ci difetta, ma sono le persone e le loro azioni inique nei nostri confronti, la loro volontà ammalata (avvelenata, diremmo), e che ci ha recato danno. Ma soprattutto, ciò che continuiamo a ripeterci ripensando al danno è che quella cosa o quelle cose «non sarebbero mai dovute essere fatte a noi»; ciò di cui più di tutto risentiamo infatti è che quella cosa o quelle cose cattive sono capitate proprio a noi, e con ciò intercettando al millimetro l’essenza stessa della questione del male: «perché io?».
Ciò che può accadere dopo avere subìto un danno, è che cominciamo ad interrogarci sulla sfortuna e sulle circostanze che ci hanno fatto diventare il bersaglio di quella certa azione iniqua, e quando ne percepiamo nuovamente (ri-sentiamo, appunto) la violenza, ci sentiamo insieme arrabbiati ed amareggiati. Il primo sinonimo di resentment in inglese è proprio bitterness che traduciamo con amarezza. Ed è amaro, pungente, bitter, il sapore del risentimento, come amaro è il sapore del veleno.
Il pensiero che invade la nostra mente è che non v’è alcuna buona ragione per cui proprio noi siamo stati fatti soffrire, mentre tutti gli altri esseri umani, invece, se ne vanno in giro per il mondo in una condizione di apparente impunità. E allora diventa una questione di destino ed implode dentro di noi un grido: «la vita non è giusta!». Il risentito, in questo caso, è una persona che è amareggiata per ciò che le è capitato, amareggiata nei confronti delle avversità, e di un destino miserabile che riguarda proprio lei, e soltanto lei, amareggiata nei confronti di coloro che hanno agito il torto, e finanche nei confronti della vita e del mondo in generale.
E allora un sentimento oceanico di tristezza, anziché di gioia, ci invade. E con esso (anche se non tutte le volte) l’indignazione aumenta ed aumenta, fino a diventare contagiosa. E’ così che il risentimento diventa un’emozione parziale che ci stringe dentro un angusto recinto dell’anima i cui confini sono l’isolamento e il contagio. Questo «cattivo uso», diremmo, del ri-sentire, ha il potere di trasformare il ri-sentimento in una vera e propria attitudine che si radica inesorabilmente nel nostro modo di essere, dapprima come consuetudine meccanica, e come elemento del carattere dipoi, fino a che non arriviamo a manifestarla anche nei confronti di chi non ha alcuna responsabilità nei confronti dell’originaria offesa.
Il risentimento, tuttavia, può anche essere un’emozione utile. Ci sembra di poter affermare che esiste un «buon uso» del risentimento che inizia con una riflessione sul dolo e si perpetua in una vera e propria pratica del ri-sentire finalizzata a trascenderne gli effetti infausti. La consapevolezza di una persona che ha subito un torto o che è stata fatta soffrire ingiustamente evoca un senso di immeritata ineguaglianza che fa sorgere insieme al senso di ingiustizia anche quello di giustizia. Il che fa del risentimento una emozione profondamente filosofica. Per la persona risentita, infatti, comincia un processo di universalizzazione che muove dal proprio caso a quello di altri, e sulla cui base si costruisce il senso di ciò che è ingiusto e di ciò che è giusto. E, contestualmente alla comprensione del dolo, si gettano le basi per il suo superamento.
L’esercizio del risentimento è capace di insegnare al soggetto un modo nuovo di vivere il tempo, e ne perfeziona la gestione in una cronografia esistenziale che è logica prima ancora che cronologica, e per ciò stesso relativizzante. Il futuro viene prima e il passato viene dopo, quasi a prevenire con il «senso della ragione» sub speciae memoriae, diremmo spinozianamente, il dolo che verrà (poiché noi sappiamo che sempre avviene).
Esercitarsi al risentimento significa, inoltre (e forse contemporaneamente), allenare alla pazienza e all’attesa (anche nel senso di attendere a, se è vero come che l’antidoto del risentimento è la gratitudine) che non riguarda più solo un eterno presente, ma un presente che è (o quanto meno tenta di essere) eternamente passato e futuro insieme.
Come afferma impeccabilmente Guia Risari nel suo studio su Jean Améry, il risentimento «è quel ritornare al passato, che inchioda il colpevole alle sue responsabilità e spinge la vittima a un legittimo, anche se tardivo, moto di rivolta contro l’ingiustizia. […] Ri-sentire, nel senso ampio di richiamare alla memoria con partecipazione emotiva, ricordare non solo i fatti trascorsi, ma gli stati d’animo e le sensazioni che necessariamente li accompagnano, è la premessa ineludibile per ogni atteggiamento valutativo». O, detto altrimenti, per la costruzione di una morale.
Il risentimento, spiega l’autrice, è ben lungi dall’essere «la vendetta ignobile e sotterranea dell’impotente; esso diviene, per la vittima di un sistema oppressivo, l’unico modo per moralizzare la vita e la storia. Lo sconfitto, rovesciando la tradizionale posizione di riserbo e acquiescenza, spezza il proprio isolamento e, con il risentire», grazie al risentire, aggiungeremmo «fornisce alla morale nuovi strumenti di attacco e di conferma».
La sua impotenza subisce una metamorfosi radicale che stabilisce un profondo legame tra la questione del risentimento e la logica della sopportazione. Il soggetto di cui stiamo parlando è il soggetto della tolleranza che, come ha recentemente illustrato Massimo Cacciari, non è solo colui o colei che è capace di sostenere un peso (da intendersi come onus) e di sopportarlo senza cedere alla fatica, ma è anche colui o colei che persevera nello sforzo di sostenere e sopportare il peso. E’ qualcuno che non solo è paziente, ma che non si lascia sopraffare dal peso che gli si impone.
Non solo e non soltanto l’esperienza compiuta del risentimento trae fuori dall’isolamento annullando avvelenamento e contagio, ma è motivo, per colui o colei che ha subito un danno, per dimostrare la sua propria potenza ed unicità. Il soggetto della sopportazione nasce a se stesso e al mondo come figura della virtus e quindi, ancora nel gergo di Spinoza, come potentia che sostiene, che sa come resistere, che si identifica e dichiara la propria unicità nella pazienza consapevole.