I Sette Doni del Teatro Evolutivo
Dott.ssa Susanna Garavaglia
Fare teatro è mettersi la maschera per sapersela togliere. Un paradosso? No, si tratta di un processo di crescita che l’attore ha il privilegio di affrontare ogni volta che si accosta a quella che non è una mera esibizione ma un vero e proprio percorso spirituale. Ed allora l’addestramento dell’attore può diventare un mezzo efficace di lavoro su di sé anche per chi non sceglie di diventare famoso su un palcoscenico ma vuole crescere spiritualmente.
Per questo da una quarantina di anni propongo a giovani e adulti Il Teatro Evolutivo, accostandolo alla Psicodinamica, alla Scrittura dell’Anima, alle terapie con i Fiori di Bach, alla Comunicazione Vibrazionale e a tutto il resto: unico e identico è l’obiettivo, differenti soltanto le modalità. Fare teatro, allora, per ricominciare ad ascoltare la voce del nostro Sé, per riconoscere le emozioni limitanti che portiamo con noi da chissà quante vite, per guardare in faccia le tematiche che continuano a riproporsi ai nostri occhi e dalle quali non riusciamo ad uscire, incatenati nei nostri blocchi e nei copioni comportamentali, per saper dare un nome alle credenze che abbiamo su noi stessi, per incontrare le nostre Ombre e cercare di trasformare il drago.
In poche parole, fare teatro per conoscere noi stessi ed imparare ad amarci fino in fondo, alla ricerca di quella strada che è la nostra ma dalla quale probabilmente ci siamo sempre più allontanati perseguire i bisogni della Personalità. E non è un caso che gli antichi usassero il termine Persona proprio per indicare la maschera, emblema dell’attore che attraverso la identificazione nel personaggio crea da sé un altro se stesso. Ed è proprio questo uno dei passaggi che giustifica l’utilizzo delle dinamiche teatrali come efficace cammino di trasformazione e di crescita. Ma vediamo il perché.
Lo Schlegel, nelle sue “Lezioni drammatiche” del 1809, parlando del rapporto tra forma e contenuto distingueva la forma meccanica dalla forma organica: mentre la prima è una aggiunta accidentale alla materia, senza alcun rapporto con la sua natura, la seconda nasce dall’interno e si definisce attraverso una crescita globale ed uno sviluppo totale dell’oggetto. Un conto è trasformare qualcosa imponendogli una struttura lontana dalla propria natura e determinata da un agente esterno, ed un altro è permettere a qualcosa di trasformarsi dall’interno, rispettando le proprie caratteristiche e crescendo, evolvendosi in modo assolutamente naturale.
Dethlefsen, in “Vita dopo vita”, un chiarissimo testo sulla evoluzione e sulla reincarnazione, scrive: “Per la legge del contenuto e della forma non esiste un caso che entra nella nostra vita dall’esterno. Dei contenuti di ciò che ci accade siamo responsabili noi stessi. Il destino che viviamo non è frutto del caso ma il risultato delle nostre azioni”.
Il dono numero uno che ci arriva dal teatro Evolutivo, in sintonia con le affermazioni di un teorico teatrale dell’Ottocento e di un ricercatore spirituale dei nostri tempi è la consapevolezza che un vero cambiamento debba essere il frutto di una trasformazione interiore. E il mezzo è dato dal fatto che l’attore non debba mimare un personaggio o una situazione ma la debba vivere dall’interno.
E per poterlo fare è necessario che sappia sollecitare la propria natura interiore per poter dar vita, con la creazione del suo personaggio, ad un essere umano vivente analogo a sé, non attraverso la imitazione che escluderebbe la sua natura nascosta ma partendo dalla propria interiorità.
Questo significa che fare addestramento teatrale è mettersi in contatto con le proprie dinamiche interiori. E Stanislavskij, ne “Il lavoro dell’attore”, punto di partenza indispensabile nella mia ricerca in questo campo, scrive: ” aiutarvi a creare un uomo vivo da voi stessi. Il materiale per crearlo dovete prenderlo da voi stessi, dalle vostre memorie emotive, dalle esperienze da voi vissute nella realtà. Dai vostri desideri ed impulsi, da elementi interni analoghi alle emozioni, ai desideri e ai vari elementi del personaggio che impersonate.”
Ed ecco che si arriva al secondo dono del Teatro Evolutivo: se l’io dell’attore deve essere la base provvisoria sulla quale costruire l’io del personaggio, attraverso l’esercizio della immaginazione l’attore vive delle circostanze mentali alle quali reagisce attraverso le proprie emozioni, sensazioni e stati d’animo, fino a dar vita al mondo interiore del suo personaggio. Così facendo egli vive un processo di crescita perché se è vera la regola numero uno, nessuno può dare qualcosa di diverso da quello che è, se non bluffando e per breve tempo. Invece accettando se stesso come punto di partenza, incomincia ad amarsi e ad apprezzarsi, mettendo in pratica la frase positiva Io amo ed accetto me stesso per quello che sono. Ma non solo: partire da sé non significa rivivere sul
Palcoscenico la propria quotidianità ma dare spazio ai propri talenti ed alle potenzialità non ancora sviluppate.
E così si può partire da quelle parti di sé ignorate, nascoste, trascurate, magari addormentate nel subconscio ma che sono pronte a venire alla luce e ad essere accettate. Ecco quindi che cosa significa diventare un altro se stesso: non soltanto quel personaggio da rappresentare ma quel me che ancora non sono e che posso diventare.
E parliamo del terzo dono: per rappresentare un personaggio si deve migliorare, liberare, arricchire l’io dell’attore perché la credibilità del personaggio è in stretta relazione con la ricchezza interiore dell’attore. A questo proposito Stanislavskij parla di “sviluppare la natura personale creativa dell’attore ed educare la sua coscienza”.
Possiamo renderci conto di come la crescita dell’uno sia in stretta relazione con la crescita dell’altro, se ci colleghiamo ad uno degli assiomi del lavoro su di sé, molto caro alla Psicodinamica: ai nostri livelli interiori profondi la nostra mente non coglie la differenza tra una emozione realmente vissuta ed una profondamente immaginata. E sappiamo che ripetute visualizzazioni mentali positive possono aiutarci a modificare un atteggiamento che non ci piace: visualizzandoci nella situazione positiva desiderata creiamo in noi quel bagaglio emozionale che ci permette di trasformare la nostra quotidianità in una realtà analoga a quella immaginata, mantenendo lo stesso atteggiamento vincente al quale ci eravamo allenati.
Ma c’è un altro punto fondamentale, apparentemente discordante dal concetto della immedesimazione, ma in realtà complementare: secondo Stanislavskij per potersi immedesimare negli stati d’animo del personaggio è fondamentale rivivere emozioni analoghe da pescare nel nostro bagaglio interiore, che possano dar vita a azioni credibili. Se il mio personaggio vive attimi di terrore per un bombardamento io, attore, dovrò entrare in contatto con il mio terrore e riviverlo sulla scena, terrore che probabilmente mi viene suscitato dalla reminiscenza di un episodio che nulla ha a che vedere con le bombe ma che ha ugualmente provocato in me uno stato d’animo di paura e di paralisi interiore.
E veniamo all’apparente discordia: Brecht, invece, parla di straniamento, di non identificazione con il personaggio. Per lui il teatro ha valenza politica e pertanto lo spettatore non deve immedesimarsi nella problematica del personaggio perché questo non gli permetterebbe di far leva sulla funzione primaria del teatro, la analisi critica dell’azione rappresentata e la libertà di condannarla o di approvarla.
Io ritengo che le due posizioni, spesso presentate in antitesi, siano invece in stretta relazione l’una con l’altra. Quantomeno tutte e due sono ugualmente utili per la crescita della persona che si addestra con le tecniche teatrali: la prima, come abbiamo visto, aiuta ad entrare in contatto con le proprie dinamiche interiori e anche a empatizzare, a saper ascoltare fino in fondo non solo se stessi ma anche gli altri. Ascoltare è un’arte quando si vuole esercitare l’ascolto profondo che, in realtà significa vuotare se stessi per accogliere l’altro.
Leggiamole bellissime parole del maestro Thich Nhat Hanh “Se pratichiamo con la stessa ricettività della terra, aprendoci, non resistendo, lasciando che la pioggia cada, allora i bei semi che sono in noi avranno la possibilità di sbocciare e fiorire. Quando ascoltate, non usate la parte superiore della coscienza, la mente, il mentale, ma imparate ad usare la parte inferiore, dove tutti i bei semi stanno dormendo. In questo modo non ascolteremo ciò che viene detto come una teoria o una dottrina, ma riceveremo il Dharma come una pioggia capace di trasformare i semi infiori”. Entrare nel proprio vissuto per incontrare quello del personaggio, dunque, ci può accompagnare ad una maggiore tolleranza delle fragilità altrui, ad una generale apertura verso l’altro oltre che, naturalmente, verso noi stessi. E noi sappiamo quanto sia importante entrare in un rapporto d’amore con noi stessi, rapporto che è fecondo soprattutto se se riusciamo ad avere una equilibrata opinione di noi. Questo significa poter capire a che punto siamo nel nostro cammino in questa incarnazione. E per farlo non possiamo identificarci solo con la nostra luce, perché questo ci precluderebbe un vero e proprio percorso di evoluzione, ma nemmeno solo con le nostre ombre perché i sensi di colpa che ne deriverebbero potrebbero crearci, a loro volta, seri blocchi.
Il segreto è usare la nostra luce per saper cogliere le ombre come opportunità di crescita. Questo può essere il nostro potere personale, la cui consapevolezza aumenta proprio attraverso la strada del contatto con le sfumature che ci appartengono. Vediamo invece in che modo è utile esercitarsi anche sullo straniamento.
Mi viene subito in mente il concetto fondamentale di disidentificazione, quel non lasciarsi trascinare nella identificazione con i propri processi egotici. Disidentificarsi è sapersi separare dalle reazioni del proprio ego, è saper trovare il proprio centro stabile, il punto di osservazione, la sala dei comandi, la sala direttiva che permette di dire Io ho un corpo ma io sono molto più di questo mio corpo, io ho delle emozioni ma io sono molto più di queste mie emozioni, io ho una mente ma io sono molto più di questa mia mente.
E potrei azzardare che è proprio questo “molto più” il vero elemento disidentificazione ed ecco il quarto dono: l’allenamento dell’attore aiuta a disidentificarsi da quello che non siamo, a lasciare andare quello che non ci appartiene più (o che non appartiene al personaggio) per riappropriarsi di quella che è la voce del nostro Sé, per sviluppare e dare spazio a potenzialità ancora latenti ma già pronte ad uscire allo scoperto. Il tutto giocando con il personaggio, mettendosi la maschera, conoscendo il personaggio attraverso di sé ma anche e soprattutto se stessi attraverso il personaggio grazie non alla imitazione né alla finzione ma alla verità interiore cioè al proprio vissuto, alle proprie emozioni, sofferenze, aspirazioni.
Ed un altro grande studioso dello spirito e del comportamento umano, Hinterhuber, scrive di una “attenta osservazione dei processi che si svolgono nel mondo interiore. Con l’osservazione di sé la nostra attenzione cosciente viene diretta verso l’interno, in modo che noi diventiamo spettatori della nostra attività, registrando e constatando nella nostra mente tutto ciò che accade in un determinato momento. Veniamo a scoprire cose che apprezziamo e cose che non apprezziamo, cose con le quali ci identifichiamo e cose dalle quali prendiamo le distanze”. Ma non solo Hinterhuber, ancheS teiner diceva che l’uomo deve acquistare la forza di porsi di fronte a se stesso come ad un estraneo per osservarsi con la calma interiore di un critico. E anche Assaggioli, padre della Psicosintesi, e Gurdjeff parlano di osservazione di sé.
Portarsi al centro ed esaminarsi, allora, consente di vivere le nostre emozioni come altro da noi, guardandole dall’esterno.
E per crescere abbiamo bisogno dell’uno e dell’altro: dobbiamo saper entrare fino in fondo in una emozione, accettarla, viverla, darle il suo nome (ed in questo ci è maestra la immedesimazione) ma dobbiamo poi anche sapercene distaccare, disidentificandoci dalla nostra paura, dalla nostra rabbia, dalla malinconia per poterle lasciare andare, come una nuvola si allontana sospinta dal vento e il cielo, sotto, è tutto blu.
Ed ecco il quinto dono, la capacità di staccarci dai vecchi copioni comportamentali per accettarci interamente nel momento presente. Staccarci da atteggiamenti comportamentali dettati da situazioni che appartengono al passato, non è facile. Noi tutti tendiamo a trascinare nel nostro cammino quel bagaglio supplementare dato da una serie di convinzioni su noi stessi di cui spesso non siamo nemmeno consapevoli. Pensieri consci od inconsci, ad esempio, possono dar luogo a quelle che la Brennan in “Mani di luce” definisce forme pensiero “Il costante timore di essere abbandonati dalla persona che si ama dà luogo ad una forma pensiero e il soggetto si comporta di conseguenza, come se il suo timore dovesse avverarsi. Il campo energetico della forma pensiero influisce negativamente sul campo energetico della persona cui il pensiero è rivolto, ottenendo spesso l’effetto di allontanarla. Maggiore è l’energia di cui viene caricata la forma pensiero, maggiori sono le probabilità che il fatto avvenuto si verifichi.
Queste forme sono talmente connaturate alla personalità del soggetto che questi non le nota neppure. Cominciano a formarsi nell’infanzia e diventano parte integrante della personalità…queste forme pensiero agglomerate attirano determinati effetti nella realtà esterna dell’individuo”. E sappiamo che questa programmazione mentale condizionante è situata al limitare della coscienza ed è pertanto possibile farla affiorare, metterla a fuoco, esprimere gli stati d’animo, i sentimenti, le una consapevolezza più lucida della realtà attuale.
E siamo giunti al sesto dono, la possibilità che il Teatro Evolutivo ci dà di vivere interamente nell’istante sacro, quando ci sganciamo dalla nostra realtà materiale e ci sentiamo uniti con il Tutto. Si tratta di attimi, di scintille, di frammenti di tempo in cui i veli tra il mondo interno e quello esterno, tra la nostra individualità e i legami interiori con gli altri e con il mondo diventano sottilissimi e ci permettono di passare dall’una all’altra dimensione, come se lo stato di coscienza si alterasse.
Ed entriamo nel Kairos, nel tempo-della-madre-, diverso dal Kronos, il tempo-del-padre. Qui noi siamo dentro al tempo, ne diventiamo parte essenziale tanto da perderne la definizione, da saperlo dilatare in un presente continuo, ben diverso dal tempo scandito dall’orologio che ci catapulta ad ogni istante nel futuro da rincorrere o nel passato da abbandonare. Nell’istante sacro non esiste giudizio, non esiste confronto con un passato perché il passato non c’è ma soltanto l’attimo presente, da vivere nella sua dilatazione totale. Dentro e fuori di noi. E nell’azione scenica ci si perde interamente ma non si affoga, si vola.
Si vola verso il settimo dono del teatro Evolutivo, la messa in atto di un processo fondamentale, il perdono. Perché “perdonare è semplicemente ricordare i pensieri d’amore che hai dato nel passato e quelli che ti sono stati dati. Tutto il resto deve essere dimenticato. Perché le figure d’ombra che tu renderesti immortali sono nemiche della realtà”. Così in “Un corso in miracoli” ma così anche tra le pareti di una stanza dove esercitandoci con le tecniche dell’attore ci alleniamo a rendere immortali le ombre di quello che abbiamo sentito dentro di noi ma lo possiamo fare proprio perché ce ne stiamo liberando. E una volta liberi possiamo scegliere ad ogni istante come modellare il nostro presente. Non è facile, non è immediato ma avviare un’azione di perdono di sé è trovare un biglietto per un viaggio verso la consapevolezza del nostro cammino. Teatro Evolutivo, allora, perché lì, in quel cammino di crescita si può vivere con gioia la nostra evoluzione.