Il manifesto politico del lavoro slow. La felicità in busta paga
Testo di: Rodolfo Signifredi
Lavorare in relax fa bene alla salute e alla produttività. Non lo dicono i figli dei fiori ma gli scienziati e gli economisti che stanno riscoprendo la “dieta mediterranea” del lavoro. Negli USA e in Giappone si riabilitano la siesta, la pigrizia e i ritmi lenti. E si studia l’allegria dei poveri per carpirne il segreto. Perché la felicità sta diventando la nuova frontiera.
La felicità in busta paga
Gli osservatori vedono che la civiltà consumistica è giunta alla frutta senza aver saziato la fame “vera”. C’è una correlazione negativa tra benessere economico e felicità. Ma se la ricchezza materiale non crea felicità, viceversa la felicità può dare una nuova ricchezza. La ricchezza diventa allora un punto di partenza e non di arrivo. Lo sanno da sempre i saggi o i poeti.
Per nostra fortuna, però, la civiltà potrebbe essere a una svolta. I risultati disastrosi del consumismo stanno portando a una presa di coscienza che prelude a un giro di boa. E non sono soltanto i “sognatori” della New Age a dirlo, ma i sociologi e gli psicologi più attenti e illuminati, che cercano tracce di gioia non effimera nei vari modi di vivere.
“La corsa si è insabbiata. Non c’è gioia perché insistiamo sulla strada del miglioramento materiale: quel treno, però, più avanti di così non ci porta“. Lo dice il professor Enrico Cheli dell’Università di Siena, uno degli studiosi italiani più avanzati nel campo, interpellato da Danilo Taino per il Corsera. Perché una fase dello sviluppo delle società moderne è finita.
“Ciò che le società occidentali non hanno ancora realizzato è che il raggiungimento della felicità avviene in due stadi. Il primo stadio è quello della ricerca del benessere diffuso, obiettivo ormai raggiunto. A questo punto, si tratta di scendere da quel treno e di salire su un veicolo diverso, perché più avanti di così il treno non ci porta“.
Resta da trovare il nuovo veicolo o un nuovo modo di procedere. Alcuni nomi di prestigio suggeriscono l’andamento slow, cioè rallentare la corsa del treno di cui parla il professor Cheli, per poter gustare di più il paesaggio. È la stessa filosofia contemplativa dello slow food in contrappeso a quella corrosiva del fast food.
Ma se l’andamento slow trova molti consensi, non si tratta del ritorno al “dolce far niente” di cui noi italiani siamo sempre stati la metafora. L’idea più vicina è quella del “festina lente”, l’affrettarsi adagio di cui già parlavano i latini. Rallentando, il tempo si dilata.
La lentezza nel “Contratto con gli elettori”
Se la lentezza come precondizione per la felicità diventa Programma di Stato, vuol dire che il nostro treno impazzito è stato intercettato anche ai piani alti e qualcuno tenta di decelerare. Sta avvenendo in Giappone, dove aumentano gli adepti del movimento slow e un’intera provincia predica la rinuncia del profitto, invitando al relax. È il governatore di Iwate, vicino a Tokio, a dire basta. E lo dice nelle tribune politiche. Proprio per questo è stato rieletto con l’88% dei voti.
Lo riferisce su “Repubblica” Alessandra Retico, una giornalista molto attenta ai rapporti tra realizzazione umana e qualità della vita. Hiroya Masuda è il capo di questa provincia giapponese, una delle più grandi, ma in una situazione economica di ristagno e con un debito pubblico da far paura. Eppure Masuda dice alla gente di prenderla su dolce. E questa gente è con lui, perché il suo programma politico è vero, sincero, realizzabile.
“Bisogna rivedere i valori“, dice imperturbabile Masuda. “Quando si impara ad apprezzare ciò che si ha, si cancella dalla visione ciò che non c’è.” E il profitto lui lo vede nella lentezza e nella pausa, non nella corsa e nell’ossessione del capitale.
Il suo programma politico prevede case in legno al posto dei grattacieli, il culto dei boschi piuttosto che quello del guadagno o del potere. “La gente a Tokyo è inseguita dalla velocità, e la vita consiste nel lavorare, mangiare e dormire. Vorrei che a Iwate ci fosse un’altra visione delle cose.” E invita i suoi concittadini a non fare straordinari, a rincasare contemplando le valli e i monti di cui Iwate è piena, a prendersi il tempo di passeggiare tra i boschi con la famiglia, a respirare la brezza che soffia tra i pini rossi, a chiacchierare nei quartieri, a cucinarsi un bel salmone appena pescato nei torrenti di montagna.
E la via slow alla vita sta seducendo anche molti manager metropolitani, che trasferiscono a Iwate le loro capacità e competenze per realizzare, con calma, nuovi tipi di scuole dove si intrecciano il gioco e lo studio, dove si insegna ai genitori l’arte di decelerare insieme ai loro figli.
Una bella frenata sul pedale della modernità, che si sta traducendo da pensiero filosofico a prassi politica. Cosa serve morire di lavoro per guadagnar soldi se poi bisogna spenderli in cure? La crisi economica che soffia anche sul Giappone sta risvegliando la saggezza degli antichi insegnamenti zen.
L’ufficio “Ricerche e Meditazione”
Anche il nostro Occidente sta prendendo le distanze dall’overdose del lavoro. Non è ancora un movimento politico ma, alla spicciolata, sono sempre più frequenti le aziende che offrono corsi di meditazione e relax ai propri dipendenti. Uno studio USA ha calcolato che, così facendo, queste aziende risparmiano buona parte dei 200 miliardi di dollari messi in bilancio per cure antistress.
È il momento di yoga e zen. Anche i manager più occupati si stanno orientando verso queste discipline. Perdere un’ora per guadagnarne tante altre è una motivazione che fa ancora leva sull’efficienza, ma può preludere a un cambiamento profondo nei modelli di riferimento.
Aziende hi-tech e società della old economy si sono convertite a queste terapie alternative come strada maestra per il risparmio e la produttività. Perché lo stress è senza dubbio il problema numero uno nei posti di lavoro. Il manager stressato, che dedica 60 minuti al silenzio, alla calma e alla meditazione, supera i problemi di lavoro meglio che affrontandoli di petto. E facendo anche meno sbagli. Il direttore generale che pratica lo yoga ogni mattina può “ispirare” il trading di un’azienda. Perché uno stato di calma non solo è “contagioso”, ma favorisce le idee e la concentrazione, e soprattutto allevia i molti dolori e le paure che si abbattono sugli executive stressati.
La meditazione “zittisce le chiacchiere mentali” e moltiplica le energie e le capacità. Un’azienda americana che tre anni fa ha “tagliato” da 850 a 500 persone la propria forza lavoro, paga classi di meditazione ai propri dipendenti per aiutarli a sopravvivere a giornate lavorative che sono diventate di 12 ore, causa questo ridimensionamento. L’arte samurai applicata alla redditività. Siamo ancora nell’ottica dello sfruttamento, nel business dell’era globalizzata. Ma è pur sempre un passo avanti.
E la scienza dà ragione al nuovo movimento, che si diffonde proprio nei Paesi dell’efficienza ad alta velocità. L’arte di “staccare” durante il lavoro diventa, così, un’abitudine da riprendere dopo anni sprecati per metterla al bando. Sono i Paesi mediterranei, dai ritmi lenti e dalle abitudini rilassate, a riabilitare la pigrizia che avevano rinnegato in nome dell’efficientismo. Il 28 agosto di quest’anno, in Val d’Aosta, c’è stato il meeting nazionale dei pigri.
Slow and love, la formula giusta
C’è, naturalmente, chi è contro questa visione e accusa i nuovi hippy o i vari Masuda di propagandare il lassismo. Ed è anche vero che il pendolo della storia, come quello della civiltà, porta sempre ai due estremi. Ma c’è un correttivo a questo slow emergente provocato dall’attivismo inumano del nostro tempo? Sì, e lo suggerisce Felipe de Leon, dell’università di Manila che sta studiando il fenomeno delle colf filippine. Vivono a migliaia di chilometri dalle loro famiglie per accudirne altre, e sono felici. Davvero felici.
“Non c’è pericolo di sbagliare: è felicità autentica“, dice. “Sono felici di sacrificarsi per poter spedire qualche centinaio di euro ai figli o ai genitori rimasti nelle Filippine. Felici di potersi incontrare nei parchi con altri filippini ogni domenica a chiacchierare, ridere, parlare, giocare come bambini.” La felicità come sacrificio e condivisione. Una formula meno seducente della vita slow, ma che si rivela efficace in termini di felicità. E che gli antropologi possono confermare attraverso lo studio di altri popoli.
È possibile trovare una congiunzione sinergica tra il rallentamento e l’impegno? Lo chiediamo al professor Enrico Cheli, che abbiamo rintracciato in Lucchesia, durante uno dei suoi seminari di formazione, nei quali il problema viene spesso a galla e affrontato come esercitazione. “La lentezza contemplativa“, ci dice, “è una buona fonte di serenità, ma da sola non basta; va sostenuta da un’altra motivazione più forte, come l’amore o la dedizione ad un valore elevato.” Più spiritualità, allora? “Sì, e semplificazione dell’animo. Se, con l’approccio buddhista, facciamo tendere a zero i desideri, avremo che la felicità tenderà all’infinito. È la famosa formula di Samuelson rovesciata.“
Siamo scesi dal treno del benessere consumistico finito in un binario morto. E stiamo iniziando la seconda parte del viaggio verso il Paese della Felicità. Il diritto alla felicità, che i padri fondatori hanno inserito nella Costituzione americana, sta diventando una delle pietre angolari del terzo millennio. La ricerca della felicità fuori dal guadagno materiale si avvia a diventare la caratteristica della prossima fase storica.
Enrico Cheli concorda con Ruut Veenhoven – dell’università Erasmus, a Rotterdam, probabilmente la maggiore autorità nel settore. Il quale dice che la felicità diventerà “la grande questione” anche in politica. Per almeno tre motivi: l’ineguaglianza e la fame diminuiscono e lasciano spazio ad altre esigenze; le grandi ideologie del Novecento si stanno ritirando e il loro posto sarà preso da altre ideologie, fondate sull’utilitarismo; e le ricerche sul tema, sempre più precise e migliori, possono ora essere usate dai governi. Con conseguenze politiche enormi, come il prendere coscienza del fatto che la ricchezza non fa aumentare la felicità e nemmeno un grande Welfare State la accresce.
Chi saranno, allora, i nuovi protagonisti di questa seconda fase? Oltre alle colf filippine, felici per necessità, o alle suore di clausura, felici per vocazione, quali possono essere gli altri modelli di riferimento per una vita più slow e, al tempo stesso, ricca di valori? Potremo puntare, secondo Cheli, sui creativi culturali, sugli ecologisti, sui pacifisti, sui frequentatori della New Age e delle discipline orientali. Un quarto della popolazione europea, che non fa tanto rumore ma comincia a farsi sentire. È la nuova cultura emergente, l’avanguardia culturale del nostro Occidente.
Perché la felicità è qui e ora. Siamo felici quando siamo presenti a noi stessi. E quando siamo in contatto con noi stessi armonizziamo gli emisferi cerebrali. Impariamo, quindi, ad alleggerire il mentale, a diminuire i desideri, a cercare la soddisfazione incondizionata, che non dipende dai gadget ma è legata all’amore e all’accettazione. Come quella delle colf filippine, che hanno una mente semplice, rilassata, non ancora condizionata dal consumismo. Oltre a un grande cuore.