La filosofia come educazione del pensiero. Una conversazione pedagogica con Matthew Lipman
Testo di: Maura Striano
Agli inizi degli anni ’70 veniva pubblicato Harry Stottlesmeier’s Discovery di Matthew Lipman. Si trattava di un singolare “racconto” che l’autore, allora professore di logica alla Columbia University, aveva scritto nel tentativo di proporre una nuova e diversa chiave di accesso al pensiero e, per estensione, alla filosofia, intesa come l’unica disciplina che “assume il pensiero, insieme, come proprio contenuto e come metodo di ricerca“.
La scelta di utilizzare un registro narrativo per una introduzione alla logica era indicativa di una peculiare scelta pedagogica. Negli anni di insegnamento Lipman si era confrontato, infatti, con notevoli difficoltà didattiche. Alla maggioranza dei suoi allievi la logica risultava oscura e complicata. Nella maggior parte dei casi, ciò era determinato da una diffusa mancanza di capacità euristiche, critiche, argomentative, certamente prerequisiti essenziali per intraprendere studi filosofici di livello accademico ma anche e soprattutto elementi fondamentali per ogni processo di formazione individuale.
Il motivo per cui gli studenti evidenziavano queste carenze era indubbiamente da rintracciare nel fatto che, nel loro curricolo formativo, c’era stato poco spazio per un esercizio critico e riflessivo del pensiero. Nessuno di loro, prima di intraprendere studi a livello universitario, aveva, inoltre, avuto occasione di confrontarsi con una disciplina come la filosofia, che negli Stati Uniti non è presente neanche nei curricoli di scuola superiore. Eppure, rappresentando, come notava Dewey, una diffusa e completa generalizzazione del pensiero nell’esperienza umana, proprio la filosofia avrebbe dovuto essere riconosciuta come fondamentale risorsa educativa a tutti i livelli d’istruzione.
Secondo Lipman, l’esercizio critico del pensiero, l’incontro con temi e problemi che stimolassero una ricerca di conoscenza, il confronto con diverse ipotesi di interpretazione del mondo e con diversi percorsi logici, l’apertura alla dimensione filosofica dell’esperienza dovevano invece essere un elemento essenziale in ogni percorso di formazione. Era necessario, tuttavia, che fossero offerti molto precocemente, addirittura già a livello di scuola elementare. Ma come?
Bisognava costruire strumenti e materiali che proponessero problemi, inducessero perplessità, coinvolgessero in una dimensione euristica… Da qui l’idea di scrivere racconti strutturati in forma dialogica, che costituissero una base di lavoro per esperienze educative in cui venisse messo in gioco il pensiero di tutti e di ciascuno attraverso la discussione, l’argomentazione, il dialogo. Da qui, inoltre, la creazione di una metodologia didattica che vedesse ogni gruppo di apprendimento (dalle classi di scuola materna ed elementare ai gruppi di formazione degli insegnanti) configurarsi come “comunità di ricerca” in cui tutti, insieme, potessero costruire conoscenza condividendo una comune responsabilità euristica.
Venivano, così, ad essere tracciate le coordinate teoriche e operative della Philosophy for Children, che, sperimentata inizialmente in alcune scuole elementari e medie negli Stati Uniti, è andata poi a diffondersi a diversi livelli formativi, coinvolgendo bambini ma anche adolescenti e adulti. Nel giro di un trentennio sono stati pubblicati nove racconti che compongono il curricolo con i relativi manuali e sono stati attivati presso l’Institute for the Advancement for Philosophy for Children alla Montclair State University, nel New Jersey, periodici workshops internazionali.
Ormai in tutto il mondo esistono, oggi, centri che si occupano della diffusione del programma e della formazione di formatori. È interessante vedere come il programma abbia preso piede inizialmente e con notevole forza in Messico (in particolare nella regione del Chiapas) e nell’America Latina, Brasile, Argentina…) dove è stato accolto come uno strumento di emancipazione e di crescita culturale e politica attraverso il libero esercizio del pensiero critico, del dialogo democratico, dell’argomentazione, secondo il magistero di Freire.
Il curricolo di Philosophy for Children è inoltre molto diffuso in Cina e in Corea, nonostante le significative differenze culturali con il mondo occidentale. Anche in Europa ne esistono numerosi centri di divulgazione (Austria, Belgio, Bulgaria, Francia, Germania, Inghilterra, Italia, Olanda, Polonia, Portogallo, Romania, Spagna, Ungheria).
In occasione della pubblicazione integrale dell’edizione italiana del curricolo presso l’editore Liguori di Napoli, Lipman ha gentilmente voluto concedermi un’intervista in cui esplicita e chiarisce alcune istanze pedagogiche essenziali alla comprensione del progetto educativo da lui intrapreso anche e soprattutto in relazione alla tradizione deweyana in cui si inscrive.
Intervista a Matthew Lipman
– Professor Lipman, ho letto il suo bel testo Thinking in Education. Il titolo mi ricorda un capitolo di Democrazia e Educazione di J.Dewey. In molti dei suoi scritti, e in tutto il curricolo della Philosophy for Childrenmi sembra di rintracciare una profonda relazione con il magistero deweyano. Del resto anche lei nel suo ultimo libro, Natasha: Vygotskian Dialogues, riconosce esplicitamente un forte legame del suo pensiero filosofico e pedagogico con quello di Dewey. Cosa può dirci in merito?
Nel 1943, quando ero soldato di fanteria durante la Seconda Guerra Mondiale sentii parlare di un filosofo chiamato John Dewey. Non sapevo bene cosa fosse un filosofo, ma riuscii ad entrare in possesso di una selezione di scritti di Dewey chiamata Intelligence and the Modern World. Ne leggevo dei passi ad ogni occasione, non comprendendone però appieno il significato. Mi sembrava solo molto saggia e molto pratica allo stesso tempo. Portai con me il libro in Europa, custodendolo nel mio zaino, e continuai a leggerlo, dalla Francia all’Austria…
Poi naturalmente ho frequentato la Columbia, dove Dewey aveva insegnato e sono rimasto un fedele deweyano per tutti gli anni della laurea e del dottorato… Mandai a Dewey un capitolo della mia tesi di dottorato e lui mi rispose, scrivendomi che gli piaceva… Dopo, gli feci visita ed intrattenni una corrispondenza con lui.
Resto convinto che Dewey sia stato e rimanga un grande filosofo ed un pedagogista di impareggiabile importanza. Penso che Philosophy for Children sia un metodo per introdurre la filosofia di Dewey nella pratica educativa. In questo senso, “va oltre” Dewey, che era profondamente deluso dagli sforzi di sviluppare la sua filosofia fatti quanto era ancora in vita. Penso che molti filosofi oggi si definiscano deweyani senza rendersi conto che essere un vero deweyano non significa ripetere o parafrasare quello che Dewey ha detto, ma “andare oltre” Dewey, continuando a lavorare nel suo spirito.
– Parlando in termini deweyani, qual è il suo “Credo Pedagogico”?
Non credo di avere un “Credo Pedagogico” nel senso di Dewey. Comunque, suppongo che alcune delle cose che una persona dà più o meno per scontate possano essere tradotte in una serie di credenze riguardanti il modo in cui si deve agire nel mondo. In questo senso, credo di aver tentato di non essere vittima dell’abitudine di fare una proposta e di aspettare che altri la sviluppassero.
Non ho proposto che ci fosse qualcosa chiamato Philosophy for Children aspettando che altri ne inventassero la teoria e la prassi educativa. Ho scritto il curriculum con l’aiuto di Ann Sharp e l’ho sviluppato dal punto di vista teorico. Allo stesso tempo, abbiamo fatto formazione degli insegnanti e ci abbiamo lavorato nelle classi con i bambini… Se questa è una delle cose che significa essere deweyani, allora, in questo senso, io sono deweyano…
– Cosa del pensiero di Dewey crede non sia stato pienamente riconosciuto o sviluppato fino ad ora?
Ho preso da Dewey l’idea che una sessione di lavoro in classe dovesse incominciare con qualcosa che sollecita l’interesse dei bambini per poi indurli a riflettere sul significato della loro esperienza, continuando a mantenere lo stesso interesse senza soluzione di continuità, fino alla fine della sessione. Le lezioni possono cominciare con una poesia, l’osservazione di un dipinto, una dimostrazione scientifica… qualsiasi cosa induca i bambini a pensare.
Quello di cui Dewey non si era reso conto era che una disciplina come la filosofia, che aveva proprio sotto il naso… per così dire… potesse essere utilizzata a tale scopo… In questo senso la Philosophy for Childrenrappresenta un modo deweyano di andare oltre Dewey.
– Ho letto di recente l’ultima edizione italiana di Reconstruction in Philosophy (Rifare la Filosofia, n.d.r.) di Dewey. Trovo sia un’opera molto importante in quanto propone un ruolo specifico e importante per la filosofia nella società contemporanea. È un ruolo difficile da definire, oggi. Foucault diceva che se è vero che assistiamo ad una progressiva sparizione delle filosofie come sistemazioni teoretiche, possiamo però riconoscere la possibilità dell’esistenza di “attività filosofiche” in diversi campi dell’esperienza umana…E lei? Quale crede sia il ruolo della filosofia nel mondo in cui viviamo?
Forse i filosofi nel mondo contemporaneo stanno incominciando a giocare un ruolo importante nell’applicazione adeguata di una teoria alla pratica e nel ricavare dalla pratica ciò che è significativo per la teoria. In questo senso, i filosofi sono ottimi critici. Sono scettico riguardo un ruolo più attivo dei filosofi in una società democratica.
La politica in una democrazia richiede combattività e filosofi come Havel sono davvero eccezionali… ma nulla impedisce ai leader politici di assumere i filosofi come consulenti o consiglieri e più in là credo che verrà un tempo in cui anche gli insegnanti avranno una formazione filosofica (che non vuol dire essere indottrinati, come ancora accade).
Dobbiamo fare il modo che la capacità di giudizio non ricada nelle mani di un’elite di esperti. Una buona capacità di giudizio è una cosa di cui tutti hanno bisogno e spero che un giorno i filosofi avranno un ruolo importante nello svilupparla alle radici…
– Philosophy for Children ha trent’anni ormai. È diffusa in tutto il mondo. Mi sembra che possa essere vista come qualcosa di più che un’esperienza pedagogica. Guardando come si è sviluppata e continua a svilupparsi, si potrebbe dire che si tratti di un movimento educativo. Cosa pensa di questa interpretazione? E quali potrebbero essere le idee fondamentali per questo movimento?
Sì, la Philosohy for Children sta diventando un movimento educativo a livello internazionale. Uno dei motivi potrebbe essere che il curriculum è stato originariamente scritto con l’idea di divenire la base di innumerevoli traduzioni.
È inteso come qualcosa che possa prestarsi sia all’universalità che alla particolarità. Così può essere usato in una società di massa come la Cina, con un miliardo di abitanti, o nell’ambito di una piccolo villaggio della jungla del Guatemala, con solo poche centinaia di abitanti. Può essere adattabile ad esclusive scuole private o a scuole pubbliche in contesti degradati, con un utenza svantaggiata sul piano economico e educativo. In esso c’è qualcosa per tutti e per ciascuno, perché la filosofia è un metodo, non un messaggio.
– Philosophy for Children evidenzia come il filosofare sia una particolare modalità di pensiero. In molti dei suoi scritti lei parla di pensiero complesso. D’altra parte, da alcuni anni stiamo vivendo un mutamento epistemologico che riconosce il paradigma della complessità come la base di un modo diverso di pensare, di conoscere, di fare ricerca… Mi sembra inoltre che sia molto importante riconoscere la complessità anche nell’esperienza educativa e proporre modalità di pensiero che possano confrontarsi con la complessità… Cosa ne pensa?
Diventiamo migliori pensatori quanto più desideriamo confrontarci con situazioni difficili e complesse. Per esempio… non possiamo proteggere per sempre i bambini dalle complessità del linguaggio, come la vaghezza o l’ambiguità…
Devono imparare che la vita e l’arte sono entrambe ambigue a molti, diversi livelli. Possiamo insegnare loro che esistono errori nel ragionamento, ma poi dobbiamo anche insegnare loro che ci sono errori negli errori… Questo è un aspetto dell’uso della parola “complessità”: comprendere la multidimensionalità dell’esperienza umana…
La mia definizione di “pensiero complesso” è un po’ diversa, nel senso che suggerisce un pensiero che pensa al proprio modo di pensare mentre, allo stesso tempo, pensa ad altre cose… Certamente, dobbiamo cercare di impegnarci a pensare il nostro pensiero attraverso una modalità di ordine superiore e non facendo ricorso a qualsiasi altra modalità di pensiero…
– Qual è l’importanza di una “educazione al pensare” negli scenari formativi contemporanei?
Negli ultimi anni c’è stato un improvviso rigurgito di interesse per le funzioni della democrazia. Si è incominciato a parlare di “democrazia forte”, di “democrazia partecipativa”, di “democrazia deliberativa”… e non accade solo in alcuni paesi, ma in tutto il mondo. È come se, una volta raggiunta la prima tappa del nostro viaggio con l’istituzione della democrazia, dovessimo impegnarci per scoprire come la democrazia possa funzionare al meglio.
Molto dipende dagli stessi cittadini. I cittadini di una democrazia dovrebbero impegnarsi nel pensiero… Dovrebbero essere riflessivi, introspettivi, responsabili, ragionevoli, collaborativi, cooperativi… Alcune – o molte – di queste qualità potrebbero essere rinforzate mentre i futuri cittadini sono ancora a scuola…
Se solo riconoscessimo che dobbiamo rinforzare le capacità riflessive di questi studenti, invece di aumentare a dismisura i contenuti di conoscenza da trasmettere loro o invece di credere di aver risolto ogni problema attraverso l’alfabetizzazione informatica….
Ecco, l’”educazione al pensare”, la promozione di un “pensiero di alto livello” dovrebbero essere un obiettivo primario per l’educazione nel ventunesimo secolo…